CONVERSATION PIECES II – UN MISTERO
Accadimento in un atto unico, da Cain e Manfred di Lord Byron
PRIMA RAPPRESENTAZIONE: luglio 2018, Teatro Poliziano (Montepulciano)
PRODUZIONE: Le Vie del Teatro in Terra di Siena, 43° Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano, Ravenna Festival
CAST: Stefano Guerrieri, Matteo Munari, Diletta Masetti
CREW: scene Benito Leonori – light designer Alessandro Carletti – costumi Patricia Toffolutti – sound designer Stefano Sasso – visual designer Mario Spinaci – coreografie Emanuele Burrafato – direttore di produzione Germana Giorgerini – coordinamento organizzativo Stefano Sbarluzzi
SINOSSI
Questo morality play frutto dell’adattamento del poema drammatico Manfred e della tragedia in versi Cain, entrambi di George Byron, si propone come confronto estremo e vibrante tra natura raziocinante, inconscio oscuro e tensione escatologica dell’uomo contemporaneo. “In principio era il Verbo”, e questi “Frammenti di Conversazione” sembrano voler restituire il fil-rouge di una civiltà poggiante sul Logos e sul Desiderio. Si tratta di una riscrittura – più che di una ripresa – dell’accadimento di simile titolo del 2013, del quale condivide l’assunto di trama.
La riscrittura, profondamente affine alle istanze byroniane, sposta l’azione in un tempo sincronico, un “eterno presente” che allinea l’Eden del Genesi, l’apoteosi visionaria e immaginifica della civiltà romantica (vera e propria condizione avvertita dell’ingresso minaccioso e desacralizzante del Moderno) e, infine, il tempo cosmico posteriore alla scomparsa della nostra civiltà, responsabile della esautorata funzione di ogni cosa bella (J. Keats) nella storia. E Caino/Manfred, come tutte le prometeiche figure byroniane, sceglie consapevolmente la dannazione piuttosto che conformarsi a quell’omologazione del pensiero e dello spirito che Byron avvertiva come la più grande minaccia antropologica dell’occidente capitalista. I riferimenti alla vicenda biografica dell’autore, contrassegnata dalle accuse di incesto e omosessualità, sono innalzati dal genio poetico di Byron alle sfere di una tensione speculativa irresistibile tra il protagonista e le forze oscure delle sue ossessioni, per rivendicare la sua dignità di libero pensatore fino al momento della morte.
L’ambiguità del testo, scevra da qualsiasi dogmatismo, è enfatizzata dalla specularità che la regia appone ai corpi poetici dei protagonisti, spasmodicamente tesi ad un’unità perseguita come sponda salvifica nel contristato cozzo del duale e che trova requie solo nella battuta finale, tragica e, al contempo, escatologica. Cifrata sempre da una semiotica stratificata e coreutica, la comunicazione espressiva, poetica prima ancora che narrativa, rifugge ogni frontalità recitativa per prodursi in una daimonica totalità di esperienza.