CONVERSATION PIECES
da Cain e Manfred di George Gordon Byron

Con: David Gallarello, Luigi Pisani
Scene: Benito Leonori
Costumi: Patricia Toffolutti
Luci: Alessandro Carletti
Suono: Marco Benevento
Coreografie: Daniela Malusardi
Coach: Mauro Pini
Direttore di Scena: Mauro De Santis
Organizzazione: Samantha Gaetani, Antimo Verrone

Drammaturgia e regia: Marco Filiberti

Adattati da Marco Filiberti come “frammenti di conversazione” di un morality play in un atto unico a due personaggi, il “poema drammatico” Manfred e la “tragedia in versi” Cain, entrambi di Lord Byron, mettono in scena uno spietato confronto tra il protagonista – emblema della tensione all’autocoscienza dell’uomo moderno – e le forze oscure dell’inconscio, dominatrici di impulsi primari e incontrollati. In quest’ottica, Caino non è il malvagio e invidioso personaggio biblico, ma l’uomo ossessionato dalle domande inerenti alla presenza del Male nel Mondo, disperato per la condanna ineludibile all’infelicità propria di chi non si acquieta nelle facili illusioni consolatorie. E così Lucifero non è una grottesca caricatura delle forze del male, ma l’alleato dell’uomo tormentato che non perdona al suo creatore le condizioni nelle quali lo ha posto. Caino arriva così a compiere il fratricidio quasi per assumersi una colpa oggettiva e in tal modo giustificare la pena che lo attanaglia.

La rilettura di Filiberti sposta l’azione in un tempo cosmico posteriore alla scomparsa della nostra civiltà, responsabile della morte della bellezza e della esautorata funzione dell’arte nella storia. E Caino, come tutte le prometeiche figure byroniane, sceglie consapevolmente la dannazione piuttosto che conformarsi a quell’omologazione del pensiero e dello spirito che Byron avvertiva come la più grande minaccia antropologica dell’occidente capitalista. Entrato nella Storia, Caino diventa Manfred, l’Uomo di un Occidente giunto al capolinea. Manfred, uomo di pensiero e di scienza, arriva al suo ultimo giorno di vita ancora ossessionato dai propri demoni fronteggiati con titanica forza inquisitoria, per poi rivelare la struggente natura del suo animo tormentato nella tragica rievocazione di un amore percepito come assoluto e colpevole. I riferimenti alla vicenda biografica dell’autore, contrassegnata dalle accuse di incesto e omosessualità, sono innalzati dal genio poetico di Byron alle sfere di una tensione speculativa irresistibile tra il protagonista e le forze oscure delle sue ossessioni, per rivendicare la sua dignità di libero pensatore fino al momento di una morte spiazzante che lo rimetterà in relazione con il suo insopprimibile bisogno d’amore.

L’ambiguità del testo, scevra da qualsiasi dogmatismo, è enfatizzata dalla specularità che la regia appone alla rappresentazione dove i due attori si alternano nel ruolo dell’Uomo e del Demone, implicandoli in una tenzone tesa fino allo spasimo e destinata inevitabilmente ad un finale tragico, ma dialetticamente aperto verso un esito interlocutorio.

La messa in scena, essenziale e indefinita, sospesa tra acqua, terra e cielo e immersa in una natura che porta in sé i segni di un tempo ancestrale, vive nel gioco di ombre e trasparenze che intessono il confronto metafisico sospeso sulla soglia del mondo sensibile e di quello ultra terreno. In scena, a sostenere l’ardua prova, David Gallarello, quasi un’epitome dell’attore romantico, come ha dimostrato nelle tante prove shakespeariane e, di recente, nel Byron’s Ruins diretto da Marco Filiberti, e Luigi Pisani, personalità emergente del teatro e del cinema italiano, scelto anche da Mario Martone per il suo tributo al Risorgimento italiano con il film Noi credevamo.