INTORNO A DON CARLOS: PROVE D’AUTENTICITÀ
da Friedrich Schiller

Con: Matteo Tanganelli, Diletta Masetti, Stefano Guerrieri, Luca Tanganelli, Giovanni De Giorgi
Scene: Benito Leonori
Costumi: Daniele Gelsi
Light designer: Mauro Toscano
Sound designer: Stefano Sasso
Trucco e parrucco: Roberto Pastore e Marilù Sasso
Coreografie: Emanuele Burrafato
Coach: Mauro Pini
Aiuto regia: Lisa Capaccioli
Riprese: Emilio Costanti
Fotografo di scena: Maria Elena Fantasia
Delegati di Produzione: Elisa Ragni e Maria Zinno
Ufficio Stampa e Promozione: Antonella Mucciaccio
Organizzatore di Produzione: Carlo Beligni
Drammaturgia e regia: Marco Filiberti

Nella corte di Filippo II di Spagna, l’infante Don Carlos, eccentrico ed epilettico, è accusato di avere una relazione incestuosa con la matrigna, la regina Elisabetta di Valois, alla quale era stato precedentemente promesso. Grazie all’aiuto dell’amico Rodrigo, marchese di Posa, il profondo desiderio di autenticità e di libertà di Carlos viene indirizzato verso la liberazione dei popoli delle Fiandre, oppresse da suo padre, il re Filippo II. Ma il complotto di corte guidato dal Duca d’Alba avrà la meglio sulla instabile sensibilità del principe.

Penso che questo Don Carlos segni una tregua dopo le smisurate ampiezze perlustrate nella trilogia Il pianto delle Muse, una necessità quasi claustrale che da uno sguardo cosmico sulla parabola umana e divina invertisse il proprio oggetto di indagine nella solitudine relazionale di pochi personaggi immersi in un preciso momento della Storia. Così, al di fuori dagli oneri produttivi e dall’impeachment mosso dal mondo distributivo all’opera-mondo, la cifra drammaturgica poteva indagarsi nuovamente in una libertà creativa in durchkomponiert, aiutata da una fonte drammaturgica “classica” (benché poco nota), compattata in un intervento di inter e meta testualità, concentrata sulla meditativa verifica di necessità espressive e formali connesse a temi per me centrali quali la violazione degli archetipi nel nostro tempo e la snaturata pratica del fare rispetto a quella dell’essere. Questa necessità di silenziosa concentrazione ha trovato la perfetta rispondenza in un gruppo di giovani attori setacciati in una foresta di provini, eterni stranieri disponibili a perlustrare strade ignote attinenti non solo alla prattica teatrale, ma alle necessità che la muovono e alle finalità che la sostengono.

In questo kammerspiel ad alta tensione, radicalmente autonomo ma al contempo sentitamente connesso con le ragioni escatologiche del sublime schilleriano, il dramma storico-politico – spalmato tra il ‘500 spagnolo, il ‘700 tedesco, il nostro tempo – declina con inesorabilità in uno psicodramma contemporaneo incentrato sulle inevitabili derive insite in qualsiasi forma di Sistema e di Potere, incluse le sedicenti democrazie. Attraverso un testo “aperto”, innervato di sezioni originali che relazionano il nuovo arco narrativo agli aspetti coercitivi della comunicazione di massa, l’orchestrazione   per “piccolo organico da camera” sostituisce la versione sinfonica a ventitré personaggi, qui ridotti a cinque soltanto.  In un rapporto dinamico e provocatorio tra i personaggi e gli attori che li interpretano, e tra gli stessi e il pubblico, l’accadimento enfatizza, del sentire schilleriano, la relazione tra desiderio di autenticità e strutture istituzionali, politiche  e economiche che governano le società, indirizzando l’azione verso dieci emblematiche scene “a due”.

Pensata come essenziale tela pittorica monocroma, la scena rimanda all’arte pittorica del XVII secolo, con citazioni alla ritrattistica di Rubens, Tiziano, Sanchez Coello eseguita per la corte degli Asburgo. Dietro alla rigidità di quelle pose,  agli abiti sfarzosi, alle gorgiere pesanti come armature, si scorge un dolore profondo e la sua impossibilità ad esprimersi, la repressione di una corte potente, cattolica e inasprita dalla paura del diffondersi dell’eresia. Un contesto opprimente come il regno di Spagna sotto Filippo II diventa allora figura della claustrofobica “assenza” dell’uomo contemporaneo     – assenza di meta, di mito, di radici, di grazia, di bellezza, di spazio, di silenzio – prigioniero nella “gabbia vuota” edificata dai Duca d’Alba di ogni tempo e luogo. E in questo clima si colloca la vicenda dei personaggi, dei quali viene indagato non tanto il dramma storico – che certamente sussiste, ma sullo sfondo – quanto piuttosto quello antropologico   e umano. Affioranti come spettri dai chiaroscuri di una calda e ovattata luce “alla Rembrandt” sulla quale si stagliano i cromatismi accesi di costumi metastorici, le dramatis personae, negando ogni naturalismo per volgersi a quella poetica del sublime tanto cara a Schiller, immersi in una dimensione a-cronica di Tempo annullato, divengono anch’esse rovine  di un sentire umano forse inesorabilmente perduto. Rigidità soffocanti si alternano a plasticità liberate in uno stream coreutico dove la comunicazione di massa e il linguaggio pubblicitario (cosa erano gli auto da fé se non una sofisticata forma di marketing?) divengono parossistiche estasi barocche, sostenute da un cluster sonoro mutuato su manipolazioni elettroniche di polifonisti fiamminghi e di compositori contemporanei. A dominare lo spazio e il tempo è allora un altrove ossessivamente presente in quanto funzione del potere e della sua violenta e necessaria promozione, rotto dalla reverie struggente di una chanson francese, ultima eco della mitizzata felicità di Fontainebleu, dove, per un momento, Carlos e Elisabetta hanno potuto vagheggiare un diverso futuro.

Allorché Carlos ed Elisabetta rinunciano per sempre alla speranza di una felicità su questa terra, si fa evidente l’estraneità scandalosa e imbarazzante delle anime grandi ai codici del mondo e alle loro incomprensibili leggi, evocando nei loro crepuscolari adieux l’impossibilità di una realizzazione mondana per chiunque persegua una ricerca di verità, il destino   di sconfitti impresso nel volto di chi non abiura alla volontà di essere anche nel disumano teatro del mondo. Della complessa figura dell’Infante emerge massimamente la sua disperata ricerca di felicità e la sua incapacità di comprendere quelle logiche che mutano un sogno puro di libertà e d’amore in un verdetto di condanna. Carlos rimane per me l’espressione di un questuante d’amore, marchiato da laceranti sensi di colpa, elemosinante un affetto negato sin dall’infanzia, incapace di crescere per paura di confrontarsi con un archetipo maschile – quello paterno – terribile e oscuro, al quale si sottrae rimanendo per tutta la vita un bambino orfano. Ma Carlos è anche emblema del sogno utopico di un mondo giusto e luminoso nel quale trasferire tanto la sua proiezione individuale – l’amore per Elisabetta e per Rodrigo – quanto quella storica, la salvezza delle Fiandre e, in qualche modo, dell’intera umanità.

Il dittico composto da Carlos e Rodrigo, vera e unica “coppia possibile” del dramma – l’anima estetica e romantica e quella etica e illuminista – costituisce un nuovo modello maturato all’ombra del rinnovato classicismo della fine del XVIII secolo. Questo topos teso verso la fratellanza dei popoli e la serena relazione tra Uomo e Natura, é permeato da una categoria connessa al sacro, quella del sublime, protagonista di una stagione tanto breve quanto irripetibile, promulgatrice di una sensibilità umanistico-panteista falciata non tanto dalla deriva imperialista del bonapartismo – più un effetto che una causa – quanto dalle nascenti società capitalistiche che produrranno, sotto un apparente ritorno al passato restaurativo, un nuovo codice antropologico, politico ed economico, quello del Moderno. Le magnifiche sorti e progressive si riveleranno l’inizio di ogni fine, stroncando recisamente quel sogno di aurora umanitaria vagheggiata dagli spiriti sublimi di Schiller, Kant, Beethoven, Byron, Shelley, Leopardi, Keats e incarnata massimamente nella figura di Goethe, il grande padre dell’ultima utopia di civiltà euro-colta connessa ad una palingenesi di universale Armonia, capace di promulgare un sentire unitario edificato su radici classiche, spiritualità cristiana e pensiero scientifico.

Credo che ad imporsi all’attenzione dello spettatore-agente in questo accadimento teatrale sia una persistente connessione tra Eros e Forma. Un linguaggio espressivo formalizzato nell’ore rotundo scolpito nel marmo di civiche virtù, nella plasticità dinamica di movimenti fittamente musicali che, muovendo da pratiche rinascimentali e barocche, si sfrangiano in una polisemia contemporanea ferrosa e anti-patica, per liberarsene infine nella disperante tensione di un sublime di impronta romantica. Questo impianto esigente, impositivo e claustrofobico – quanto i due estremi storici che connette:       la corte repressiva di Filippo e il deserto autistico del contemporaneo – si interfaccia continuamente, nella luminosa tensione escatologica schilleriana (massimamente incarnata in Rodrigo), con la trascinante esuberanza dei giovani attori/personaggi, avvolti empaticamente da un’irrefrenabile corrente erotica, sacrario misterico sopravvissuto all’omologante imbarbarimento contemporaneo, come già anticipava Il Crepuscolo di Arcadia. Eros come desio,  tensione conoscitiva e liminale, disperante ricerca empatica nel deserto di comunicazioni tanto invasive quanto sorde      e assenti. Eros come appartenenza fisiologica al flusso dell’esistenza negato recisamente da quei messaggi pubblicitari che inficiano lo scorrere del dramma. Eros come terreno antecedente ad Agape, al Sacro, alla meta cristologica di un corpo unico composto da infinite membra.

In un tempo in cui anche la giovinezza è stata omologata ad anarchica apatia, la scultorea tensione vitale di questi protagonisti, splendida di idealizzante eroismo alfieriano, mi desta un’estrema commozione, quella che, ancora una volta, ci ricorda a cosa sacrifichiamo quella misterica esperienza chiamata vita.

Epitaffio per il Sublime di Marco Filiberti, estratti dal volume Intorno a Don Carlos
a cura di Pierfrancesco Giannangeli (Edizioni Titivillus, 2016)