PARSIFAL
Questo Parsifal del nuovo millennio è un’opera d’arte immensa, internazionale e inattesa … un cult movie imperdibile
«Il Sole 24 ore» G. Lissi
Alla quarta regia Filiberti trova il suo Graal artistico con un’opera cinematografica totale e mesmerizzante. Un viaggio orfico senza paura tra letteratura, pittura, religione, teatro e musica. … Con questo suo Parsifal Marco Filiberti ha saputo avvicinarsi all’essenza dell’eponimo eroe del ciclo arturiano – una delle personificazioni leggendarie più pregne dell’innocenza – liberandosi dal giogo normativo della ricezione commerciale/autoriale per creare un’opera artistica totale che in Italia si fatica anche solo ad immaginare, figurarsi a realizzare in questi termini. Perché se nella ricerca del Graal, sacro o laico che sia, quello che importa è proprio conservare il cuore lontano dalle tentazioni del mondo che vorrebbe corromperti e, peggio ancora, uniformarti a sé, alla sua quarta regia Filiberti sembra aver spezzato definitivamente le catene che lo tenevano avvinto alla produzione italica superando perfino la dimensione aurorale dei suoi precedenti film. … Parsifal raccoglie con ambizione l’enorme peso della tradizione mitica rilanciandosi allo stesso tempo come erede della sua riscrittura più famosa, ovviamente quella wagneriana. Una Gesamtkunstwerk toscana che si pone sprezzantemente in aperto dialogo con le massime espressioni del canone occidentale degli ultimi secoli: dai monologhi scespiriani del protagonista alle scenografie fassbinderiane, dai colori caravaggeschi di alcune scene ai riferimenti joyciani, dagli aneliti religiosi di rinascita al misticismo di una temporalità a-lineare e impossibile da decrittare razionalmente. … Filiberti cerca l’effetto sinestetico trovandolo a quasi ogni inquadratura, spinto da un furore che riesce a fargli ottenere mirabilie che vanno anche oltre le intenzioni di partenza. … Una cura formale da cui è quasi impossibile non farsi sedurre. L’ouverture ambientata nel porto, ad esempio, è probabilmente una delle più belle crasi set-palco degli ultimi anni esperita dal nostro cinema … In un film che rifiuta questa categorizzazione per definirsi sin dai titoli di testa come “opera cinematografica” non è olisticamente la somma delle singole parti a definirlo quanto l’interconnessione metatestuale a cui rimandano le sue sequenze. Ed è davvero straordinario come in tale operazione il cinema non si abbassi mai ad una posizione ancillare ma riesca, come se fossimo agli inizi della rivoluzione dell’immagine in movimento, a convogliare dentro i suoi confini le istanze delle altre arti. Il formalismo di un progetto pensato e coltivato visceralmente, fieramente autarchico nella sua ricerca poetica (il ricorso alla sedicente “drammaturgia del rovinismo”), lo connota senza paura di contraddizione di un particolarismo tecnico e di un universalismo tematico mai dissonanti. Parsifal compie la sua rivoluzione esistenziale camminando tra riconoscibili colline senesi e quando torna al porto della Terra Desolata, poco prima di congiungersi con la Terra per entrare nel tempo dell’Adesso, si ha l’impressione che T.S. Eliot abbia scritto il suo capolavoro da una campagna in Val di Chiana. Per quanto riguarda la parte tecnica Filiberti, insieme al direttore della fotografia Mauro Toscano, riesce con grande finezza ad avvicinare il digitale della macchina da presa al materico della pittura rinunciando a sfumature e gradazioni tonali per concentrarsi, alla maniera di Raffaello, sulla pregnanza di pochi colori primari e secondari (il giallo della Golden Age del Jazz nella lunga scena ambientata nel bordello, il marrone della pietra del monastero nel dialogo Cristologico tra Parsifal e il suo sé). Anche la performance dei pochi attori presenti in scena denota il lungo lavoro preparatorio fatto con essi e la loro totale adesione verso la koinè visiva del regista. In un’opera cinematografica che si nutre di suggestioni sapienziali antichissime si può ricavare un aforisma dal sapore new-age: per trovare il Graal dell’ispirazione artistica basta semplicemente avere l’ardire di un ego ipertrofico. Come Parsifal, come Filiberti.
«Sentieri Selvaggi»: Parsifal, di Mario Turco
Il Parsifal di Marco Filiberti è certamente una creazione filmica del tutto particolare nel panorama italiano e non solo. Si tratta di un vero prodotto internazionale, dove il regista è riuscito con successo, sulla scia di Wagner, a dare luogo a un’autentica opera d’Arte totale, in cui musica, teatro e Arte si fondono, dando luogo a un insieme eccezionale. Più che a un film, somiglia a un melodramma, per le scene e anche per i movimenti dei personaggi, che si fanno scultorei, in un complesso visionario onirico ben congegnato, che in parte ci riporta alla poetica felliniana.
… Alla fine la luce lascerà le tenebre, quando il protagonista, l’ottimo e intenso Matteo Munari, potrà finalmente interfacciarsi con il Cristo Crocifisso, trovando quella sacralità tanto agognata. Grande prova anche dell’altra protagonista al femminile, Diletta Masetti, che interpreta la sensuale e carnale Kundry. …
Il tutto si muove in un’atmosfera sospesa, come se fosse cristallizzata, ferma nel tempo. Quella di Filiberti è più un’opera di poesia che di cinema, un’opera che più di dare risposte lascia con delle domande esistenziali. Sicuramente è un percorso verso la ricerca della fede, tramite l’accettazione di tutto quello che noi chiamiamo “Male”. … Tutto è Uno, spiegano i taoisti, e non esiste distinzione. Il cosmo va semplicemente accettato per ciò che è.
«Corriere dello Spettacolo»: Il Parsifal di Filiberti: un’opera d’arte totale, di Stefano Duranti Poccetti
L’opera di Marco Filiberti è la più ambiziosa della storia. … Diviso tra nebbiosi porti fassbinderiani, bordelli da Weimar, deserti, Filiberti ausculta emozioni nella Terra desolata alla Elliot. … Ma in qualche momento nasce un germoglio poetico…
«Corriere della Sera»: La rilettura (ambiziosa) di un mito, di Maurizio Porro
Ha da poco vinto il Flickers Rhode Island International Film Festival, e davvero assomiglia a poco altro nel panorama contemporaneo. Riluttante, più corretto dire ostinato, nel negare di uniformarsi al sentire comune a proposito della gestione del tempo e degli spazi, dell’uso della musica, del rapporto dell’attore con il proprio corpo e l’ambiente … Marco Filiberti mescola cinema, teatro e musica per una riflessione esistenziale e spirituale di anomala profondità. … Un lavoro complesso e stratificato che gioca sfrontatamente con le possibilità offerte dalla narrazione cinematografica. L’ambizione dell’opera si misura nella qualità della messa in scena… (la splendida fotografia di Mauro Toscano, il contributo delle scenografie di Livia Borgognoni) … e nella presenza fisica e carismatica del cast. Il lavoro di Filiberti sugli attori è totale, e la componente coreografica (curata da Emanuele Burrafato) ha il suo peso. Non solo i toni, gli accenti, le intonazioni e l’espressività ne scrivono la storia, anche il più piccolo movimento dei corpi racconta e custodisce un segreto del film. Parsifal si fa forte della sua diversità, del rifiuto della convenzione e dell’abitudine. Una condizione di alterità, questa, che non si può mettere in discussione. Il problema della definizione ha il suo senso: opera cinematografica e non film, dal momento che si serve del mezzo cinema ma lo supera…
«Cinematograhe.it»: Parsifal, di Francesco Costantini
Rilettura … “atemporale” del mito epico-cristiano, ricca di atmosfera e misteri, che pur non nascondendo la propria natura e origine teatrale non rinuncia e anzi esalta l’apparato cinematografico, con inquadrature ricercate, location affascinanti e una fotografia molto curata a opera di Mauro Toscano.
«Cinecittà News»: Il Parsifal post apocalittico di Marco Filiberti, di Andrea Guglielmino
Parsifal, scritto, diretto e interpretato dal drammaturgo Marco Filiberti è un’opera unica in cui cinema e teatro si fondono mostrando, ancora, fin dove possa spingere la settima arte.
«Taxidrivers»: Parsifal L’opera cinematografica di Marco Filiberti, di Simona Grisolia
Si è già aggiudicato un premio internazionale, quello di miglior lungometraggio alla 39esima edizione del Flickers’ Rhode Island International Film Festival. Scritta in sole 3 settimane da Marco Filiberti, che ne è anche il regista, Parsifal è un’opera al di fuori dei canoni e un modo diverso di vedere l’arte, che qui si manifesta in tutte le sue forme. Un’opera cinematografica che parla del desiderio che da sempre affligge l’uomo e dell’amore come unico strumento per sconfiggere la morte. Parsifal è … un’opera cinematografica che rifugge da ogni definizione. Basta guardarla una volta per capire che cosa si intenda con tale affermazione.
Il Parsifal riadattato dalla mano di Marco Filiberti … è un’incredibile metafora del presente, in cui l’uomo è costretto a vivere nel disfacimento più totale e in un mondo sempre più comandato dal mercato che non trova tempo e spazio per l’arte. Arte che invece in questa opera fa da protagonista in tutte le sue sette forme. Non solo la settima, quella del cinema, a cui sarebbe assolutamente eufemistico ricondurre il percorso intrapreso dalla troupe: in Parsifal infatti un ruolo centrale lo rivestono la musica (e non poteva essere altrimenti vista l’origine) e la danza. Come ci tiene a spiegare il regista infatti tutti gli attori sono stati seguiti e accompagnati da un coreografo affinché ogni movimento fosse equamente e organicamente distribuito in ogni parte del corpo. Un lavoro di piena consapevolezza e connessione fisica che c’è e si vede. Ciò che contraddistingue l’opera è anche un’ottima fotografia, diretta dal giovane ma già esperto Mauro Toscano che regala agli spettatori un tuffo nella sconfinata campagna toscana … di cui possiamo ammirare le splendide bellezze architettoniche. E impossibile non accorgersi dell’uso che viene fatto della pittura proprio per sottolineare l’importanza della scenografia. La poesia è, invece, l’arte che in Parsifal riveste la parte del leone e che dà inizio a tutta l’opera cinematografica. Alternata con intelligenza alla prosa, la quinta arte permette inoltre di evidenziare le capacità attoriali dei giovani protagonisti. Infine la scultura. … Diretto a un pubblico esigente e non convenzionale ma che si spera sia sempre più presente nelle sale del Bel Paese, Parsifal rappresenta ciò che mancava nel nostro panorama cinematografico.
«l’Occhio del cineasta»: Parsifal: le sette arti riunite in un’unica opera cinematografica, di Veronica Cellai
Parsifal si distacca decisamente dai canoni cinematografici di precedenti opere, grazie anche ad un solido cast scelto attentamente …
Un lungometraggio degno di nota che va segnalato per la sua originalità in un’epoca in cui la Settima arte sembra essere risucchiata quasi esclusivamente da fracassoni cinecomic Marvel e simili.
«Mondo Spettacolo»: Il Graal del mistero, di Roberto Leofrigio
Parsifal è la rappresentazione più reale e dolorosa della condizione umana, la consapevolezza interiore che si ottiene solo dopo essersi addentrati nella fatica e nel dolore, nella tentazione e nel superamento fisico e psicologico dei propri limiti. Il viaggio del protagonista è un viaggio iniziatico e spirituale in un mondo decontestualizzato, in una visione apocalittica in cui smarrita ogni certezza, persino quella biografica, senza alcun orizzonte o orientamento, resta la possibilità di una nuova rinascita attraverso il pensiero, l’errare interiore nel proprio flusso di coscienza e l’empatia con il prossimo. L’approccio del regista milanese, appassionato, visionario e di grande impatto è quello di creare un affresco totale, da un punto di vista contenutistico, estetico e sonoro. Il suo film non è, infatti, di semplice lettura ed è interpretabile su più livelli: a quello più profondo la peregrinazione dello spirito e la rinuncia naturale del desiderio porta alla rottura delle catene e a una ritrovata libertà. Da un punto vista estetico e sonoro, lo spettatore si trova immerso a 360° in una dimensione altra: l’estetica del film è infatti di ottima fattura e alcune scene sembrano dipinti, così come è evidente il sapiente utilizzo “plastico” dei corpi, anche in scene sensuali e ad alto tasso erotico, che non risultano mai volgari, ma sempre apprezzabili. La poesia delle immagini e dei “quadri viventi” si sposa alla perfezione con l’intreccio musicale (curato da Stefano Sasso). La confezione estetica del film – grazie anche alla fotografia di Mauro Toscano, così come alle scenografie di Livia Borgognoni – è quindi estremamente curata e impeccabile, così come il senso e il significato dell’intera opera, che tocca lo spettatore consapevolmente e a livello più inconscio. … Per la bellezza estetica, la cura dei dettagli e per la complessità di significati, un’opera da consigliare e da vedere.
«Close-up»: Parsifal, di Sarah Mataloni
La confezione estetica è eccellente, ispirata a molta pittura e a molto cinema: la fotografia di Mauro Toscano, così come le scenografie di Livia Borgognoni e i costumi di Daniele Gelsi, sono di altissimo livello, ed è merito del regista e sceneggiatore Filiberti aver mantenuto la barra elevata anche per la recitazione degli attori, tutti molto duttili e capaci, in particolare gli interpreti dei ruoli secondari Luca Tanganelli e Zoe Zolferino. … Questo livello di ambizione artistica è raro nel cinema italiano, e il senso di struggimento che Filiberti cerca di comunicare per parole e immagini è figlio del nostro tempo disorientato. C’è anche un gradito ritorno alla plasticità dei corpi “come strumenti organici”, sottolineata da movimenti attentamente coreografati e ben interpretati da attori dai molti talenti.
«MyMovies»: La leggenda di Parsifal ripercorsa per raccontare lo smarrimento esistenziale dei nostri tempi, di Paola Casella
“E allora, sai che ti dico io? / Che proprio dove non c’è nulla / – nemmeno il dove – c’è Dio”, scriveva a pochi anni dalla morte Giorgio Caproni, e proprio questi versi, questa speranza disperata ci tornano alla mente nel guardare Parsifal, nuovo (capo)lavoro di Marco Filiberti, artista totale che torna nelle sale non con un film, ma con un’opera cinematografica: un’esperienza multi-artistica, che fonde teatro e cinema, musica e pittura, prosa e poesia per farsi altro e farsi unicum, lungo un percorso poli-sensoriale che è al tempo stesso allegorica rappresentazione dell’umanità di oggi e scavo infaticabile nell’umano di sempre.
Partendo dall’omonima opera di Richard Wagner, assunta e inglobata giusto il tempo per superarla e davvero sublimarla … il Parsifal di Filiberti c’immerge in un’atmosfera sospesa, liminare, insieme fine e principio di un mondo che ci è tanto famigliare quanto estraneo, dove ogni personaggio è testimone e figura di un’umanità residuale, ognuno scheggia, spigolo di specchio che riflette i volti e le storie, tutti i volti e tutte le storie di chi c’è stato, ci sarà stato e ci sarà. Merito di una regia e di una sceneggiatura volutamente stranianti, anti-mimetiche, infatti, una regia e una sceneggiatura che si sostanziano nello squarcio e nel frammento, nella citazione e nell’evocazione (innumerevoli i riferimenti a capolavori del cinema e della letteratura …), lo spettatore, ogni spettatore, se accetta di abbandonarsi e liberarsi dalla miriade di sovrastrutture che ne condizionano e percezione e coscienza, non può che riconoscere se stesso, la propria vita e i propri morti, la propria memoria e la propria speranza, il proprio dolore e i propri perché – la propria personale ricerca, insomma, in questo viaggio che all’artificiosa autoreferenzialità dell’enigma sa preferire l’umanissima ineffabilità del mistero.
Viaggio e mistero che sembrerebbe aver intrapreso e accettato in primis Filiberti stesso, se quella possibilità di auto-riconoscimento da parte dello spettatore risulta evidente, a ben guardare, non solo grazie alle riuscitissime scelte tecnico-espressive, ma da un’autenticità, di nuovo, umana, che si respira e ci coinvolge sin dalla prima scena. Al di là, infatti, della lettera, della parola detta, dell’immagine mostrata, questo Parsifal ha la spietata e commovente statura dell’autobiografia, testimone com’è di un vissuto che non vuole né deve essere compreso, ma donato, quindi accolto. Prova ne sia, anche, la recitazione degli attori: impeccabili nel gestire ruoli-simbolo e un materiale linguistico tutt’altro che immediato, sembrano tutti, in un tempo, ciò che rappresentano e ciò che vivono, in un istintivo gioco di riflessi e meta-esperienze. Perforato fino all’abbattimento il muro che divide l’interprete dall’interpretato, allora, questi attori mettono in scena davvero anche se stessi, guidati, più che diretti, da Filiberti, ad incontrare l’uno il viaggio dell’altro, l’altro il dolore dell’uno, tutti l’esistenza di tutti, col risultato di consegnarci, involontaria mise-en-abyme, l’essenza ultima di quest’opera cinematografica, tutta disperatamente tesa a recuperare lo specifico più puro dell’umanità (l’autocoscienza, la condivisione, il rifiuto netto di ogni gerarchia) e la sua sacralità.
Sacralità, sì, eccolo forse il punto più delicato, più sofferto, della conquista umana e artistica che Filiberti in Parsifal mette in scena …, allievo in questo proprio di quel Wagner che era convinto che spettasse all’arte il compito di salvare e autenticare il religioso. Una sacralità, quella del Parsifal, e una religione dell’uomo, che fa leva volentieri sulla simbologia più nota del cristianesimo, non per abbracciarlo in quanto dottrina, ma per, anzi, ridargli slancio, liberarlo dai fraintendimenti che hanno portato a spaccare via l’anima dal corpo: lo spirituale, qui, necessariamente si fonda su un principio di fisicità, di carnalità. Una fisicità, una carnalità, che Parsifal tematizza in tutte le sue sfumature, aprendo al casto e all’erotico, al tenero e al violento, al biologico e al mistico con stessa disponibilità e senza mai dimenticare, anzi per ribadire, la necessità di una sutura tra “anima” e “corpo”, inteso, quest’ultimo, come qualcosa di ben più profondo del mero organismo. Eccola, infatti, la centralità, in tante delle scene che scandiscono il viaggio di Parsifal, dell’elementale: è carne, sì, il corpo umano, è sangue, certo (e di sangue, qui, ne scorre parecchio, ma è, ancora una volta, sangue insieme vivido e simbolico, quasi Filiberti volesse rendere visive certe pagine dell’imprescindibile René Girard, tra desideri mimetici e sacrifici rituali), è organi e arti, sì, ma è anche e soprattutto acqua e vento, erba e grano, cielo e, specialmente, terra. È la terra, a farla da padrone, qui, in questo bilico tra catastrofe e palingenesi, è la terra col suo onnipervasivo esserci e sfuggirci, la sua concreta impenetrabilità che coincide con la nostra impossibilità di svincolarcene del tutto, non importa quanto alta e intensa sia la nostra brama di un volo, di un altrove.
Fedele sempre a un’estetica di forme e di colori che crede fermamente al valore universale, conoscitivo, salvifico del Bello (incarnato come scelta di vita e di sguardo, non, va da sé, vagheggiato come sterile idolo), Parsifal si mostra, così, talmente consapevole di quel limite di carne e di terra che ci costituisce umani da riuscire, alla fine, a disinnescare ogni dolore e ogni frustrazione. Assurgere all’essenza, al cosiddetto “spirito”, infatti, non significa negare la nostra materialità (l’esatto opposto, si badi, sembra dirci Filiberti, dell’invece disumanizzante materialismo), la nostra finitezza, il nostro fango o il nostro sporco (si noti l’insistenza della macchina da presa sugli elementi del corpo spesso considerati infimi), ma anzi accoglierli fin nel profondo, fino a non percepire più, cioè, il confine tra noi e il mondo, noi e l’altro.
Se proprio, allora, si volesse trovare una definizione a questo Parsifal che è anche vera liturgia (ma nel suo senso più originario: il greco antico, come la poesia di cui si sostanzia la sceneggiatura, risolve ogni possibile fraintendimento: “azione-per-il-popolo”) la si chiami pure opera religiosa, ma non si dimentichi che Filiberti ha capito che, per placare la sete di divino, fino all’ultima goccia bisogna bere dal bicchiere dell’umano.
«Note verticali»: La sacralità del Parsifal nell’opera di Marco Filiberti, di Sacha Piersanti.
Ci sono registi che fanno storia a sé, nel cinema: come Marco Filiberti. … La sua ultima opera cinematografica è un film fulgido e possente … creato con entusiasmo e lucida follia. Girato quasi interamente in una Toscana resa ancora più pittorica, misteriosa, eterna. … Le suggestioni letterarie e musicali si fondono nell’opera di Filiberti che ne è anche interprete in mezzo al cenacolo di attori della compagnia degli Eterni Stranieri fra i quali spicca Matteo Munari nel ruolo di Parsifal.
«La Nazione»: Arte e paesaggio: “La mia Toscana da film”, di Giovanni Bogani.
Il Parsifal di Filiberti come “opera in cammino verso sé stessa, è a sé stessa strada”, può costituire un inaspettato quanto imprescindibile viatico per uscire dal deserto dei nostri tempi … In particolare nella formidabile sequenza dell’ascesi cristologica al tempio della Montsalvat celeste – l’Incantesimo del Venerdì Santo – si assiste a una delle sintesi più suggestive che la cognizione del Sacro come ierasi abbia mai espresso per mezzo delle arti visive.
«Il Mistero Luminoso»: A proposito di un’opera-mondo, di Paul Senhal.
[…] Marco Filiberti, mente di rara vivacità e preparazione, capace di perseguire senza compromesso alcuno uno sguardo tanto inedito quanto prezioso nel panorama del nostro cinema. Perché parlare di “trama” è riduttivo: il suo “Parsifal” non può essere ingabbiato in una sinossi compiuta, a meno che questa non si limiti ai minimi dettagli e alla massima evocatività. Con ciò non voglio affatto far immaginare al lettore un “film-capriccio”, una disinvolta miscellanea di sensazioni e richiami operistici (Richard Wagner in primis), letterari e teatrali. Tutt’altro, “Parsifal” è un’“opera cinematografica” (come sottolinea l’autore nei titoli iniziali e finali), poetica e insieme di matematica precisione. … Sì, perché la dimensione artistica è radicalmente potenziata da uno studio e una impalcatura di estremo rigore. A partire dalla struttura complessiva, la quale – da quel poco esposto – si capisce essere, più che “circolare”, “a spirale”, con una partenza e un ritorno “altro” al punto da cui tutto ha avuto scaturigine (unico percorso, d’altronde, per sperare di “lambire” il “Graal”). Proseguendo con i personaggi, che si sdoppiano nei corpi e nelle dimensioni temporali, dialogano con gli altri e con se stessi, si fondono mantenendo la propria unicità. E così le scene, virate – minimamente e proficuamente – ognuna su dominanti specifiche, che connotano il momento mettendo in vivido dialogo – diretto – personaggi ed ambiente e – a distanza – le scene che precedono e quelle che seguono. … Filiberti compie un miracolo espanso: porta al massimo livello la recitazione degli attori da lui stesso formati all’interno delle “Vie del Teatro in Terra di Siena”, tanto che la compenetrazione di interprete e personaggio appare totale (su tutti, oltre ad Amfortas/Felipe-Filiberti, Parsifal-Matteo Munari e Kundry-Diletta Masetti, i ruoli con il più ampio ventaglio di sfumature, coperto da tutti e tre gli attori in maniera eccelsa dentro una misura che è potenza assoluta; ma vogliamo tacere della contagiosa freschezza della bravissima Elsa-Zoe Zolferino?); genera un’opera che si pone da subito come antitesi di qualsiasi altra proposta nelle nostre sale o piattaforme; mantiene – complici innanzitutto la fotografia di Mauro Toscano, le scenografie di Livia Borgognoni, i costumi di Daniele Gelsi e le musiche di Paolo Marzocchi – una qualità tecnica internazionale, che non fa percepire in nessun istante il budget necessariamente non stellare.
Il nostro auspicio, adesso, è uno solo: che questo “Parsifal”, pur potendo esserlo a tutti gli effetti, non sia un’opera-testamento, una summa senza un “oltre”. Ma che, esattamente come la scena iniziale al porto, dalla perfezione “circoscritta” ne generi un’altra “diffusa”.
«Il Profumo della dolce Vita»: “Parsifal” di Marco Filiberti: una potente “opera cinematografica” di Massimo Nardin.
Il film di Filiberti è quanto di più coraggioso ed utopico abbia visto dai tempi di Pasolini e Fassbinder: 133 minuti di un impossibile filmico, deflagrante, tentativo di trovare un senso da un abisso cosmico incombente. Un’opera poderosa ed estrema sulla quale occorre soffermarsi a riflettere con attenzione.”
«Il Parsifal di Filiberti»: di Saverio Corti.
Davanti al non-scenario apocalittico contemporaneo … in campo artistico oggi ci sono solo due possibili strade da per-seguire più che da percorrere; ma entrambe richiedono l’adesione totale alla propria condizione esistenziale e umana che non esula assolutamente dal contesto socioculturale in cui giocoforza un’opera è inserita. Una è quella nichilista post-nicciana il cui ‘tragico’ esponente poteva essere un Carmelo Bene; l’altra è quella mistico-sacrale post-heideggeriana che attraverso un recupero dell’archetipo o finanche del mito, si ponga al di fuori di quell’archeologia del sapere che ha fondato il nostro umanesimo fino al suo attuale collasso. Di quest’ultima strada uno dei pochi che mi pare in cammino da noi è Marco Filiberti.
«Considerazioni inattuali sul Cinema Italiano»: di Paul Senhal.
RELAZIONE SUL PARSIFAL DI MARCO FILIBERTI
Alcune riflessioni in merito a un film acheropita.
Per quello che mi riguarda siamo già alla terza presentazione di questa sorta di panda-film, nel senso che andrebbe tutelato dal WWF, ovvero il World Wide… Film, visto che tratta di tematiche mai trattate – o quasi – dal cinema, quello italiano in particolare, e cioè la questione del Sacro, confuso spesso e volentieri, ahimè, col religioso. In effetti esistono pochi lavori dedicati allo ieròs, questione tra l’altro che per la prima volta è stata estromessa di sana pianta nella storia delle civiltà occidentali, cosa mai successa nei secoli precedenti. …
Tornando alla questione del Sacro, come dicevo, è qualcosa di ineffabile che ha a che vedere col mistero, la mistica appunto, e quindi con uno degli aspetti più intimi e privati dell’esperienza umana. Ciò che divide il Sacro dal religioso (il termine latino religio, che deriva probabilmente da religare, richiama proprio l’idea dell’obbligo, del vincolo), può anche essere ciò che accomuna in qualche modo il cinema al Sacro; e in questo caso può farlo forse attraverso il recupero di ciò che lo formalizzava narrativamente e cioè nella fattispecie l’archetipo e più in generale la questione del mito. Da questo punto di vista l’accostamento fra mito e cinema ci potrebbe già dare una linea di fuga per evadere dalle pastoie del già visto o del già detto. Confesso a questo proposito che mi trovo sempre in difficoltà a parlare di cinema e di questo film monstre in particolare , non tanto perché non se ne possa parlare ma perché non si finirebbe più di farlo, e qui in fondo sta il paradosso di questo “innominabile attuale”, in quanto non solo ne discutiamo stasera come le altre volte, ma con questo siamo già al terzo libro dedicato a questo Parsifal, tanto che dovremmo a questo punto annoverare quello di Filiberti come l’ennesima trasposizione del ciclo carolingio-tedesco che annovera tra gli altri oltre a Wagner, Robert de Boron, Chrétien de Troyes e Wolfram von Eschenbach, per non parlare di tutta la parafernalia che ne è seguita. …Per tornare brevemente al discorso sul Sacro, l’altra volta riguardo alla fruizione di questo film ho avuto l’ardire di considerare lo schermo stesso come una sorta d’iconostasi nel senso di Florenskji, cioè quella parete divisoria che separa nelle chiese l’altare degli officianti e dei fedeli dal cuore della ritualità, che è rappresentata dall’icona e quindi dal Sacro, che rimane nascosta, “schermata” appunto da un’iconostasi. L’icona russa, come l’immagine acheropìta, cioè non dipinta da mano umana, come quella custodita anche qui a Roma nella Cappella del Sancta Sanctorum alla Scala Santa di San Lorenzo in Palatio, non è una semplice rappresentazione del Sacro ma, come afferma Florenskji, è il Sacro stesso. La suggestione mi è venuta dal fatto che almeno nelle intenzioni, non so se posso dirlo ma dal momento che il magister non è presente lo dico, trattasi di un’esperienza intima e personalissima del suo autore o trans-autore qui assente nella sua presenza-assenza. Questo film non si rivolge a un pubblico indifferenziato, ma in qualche maniera che ognuno di voi potrà elaborare a seconda delle proprie esperienze o correnti di vita, è rivolto al singolo, alla persona in quanto tale che dovrebbe appunto oltrepassare l’iconostasi dello schermo per ricavarne in qualche maniera un prodotto puro, per tornare al discorso precedente. Quindi consiglierei innanzitutto di non farsi suggestionare troppo dall’impianto apparentemente teatrale e dal linguaggio verbale, per alcuni verboso, che richiederebbe tra l’altro una fruizione attenta e ripetuta soprattutto per chi eventualmente sia interessato all’aspetto letterario o filologico del testo. Perché non è tanto questo, a mio giudizio, l’aspetto più rilevante dell’opera che vedrete.
A questo proposito, fra le tante suggestioni che mi sono venute in mente in questi giorni rivedendo il film, c’è che questa “opera cinematografica” come la definisce Marco Filiberti, o “opera-mondo” si tratta innanzitutto di un’opera palinsesto, nel senso che assemblando materiali diversi (Eliot, Joyce, Proust, Wagner e via dicendo) in qualche maniera ne sovradetermina i riferimenti diretti o indiretti, per parlare appunto d’altro. In altri parole c’è il tentativo di andare oltre l’espressione facendola in qualche modo collassare attraverso, da una parte, un uso barocco, ridondante della parola, una parola sicuramente antirealistica, aulica, teatrale in senso classicista certo, ma che sussume e riassume dall’altra, gran parte della cultura umanistica occidentale (dalla filosofia alla teologia, dalla psicoanalisi sia freudiana che junghiana fino a certe derive sapienziali non solo cristologiche ma anche di origini orientali, vedi l’albero del bodhi sotto il quale Parsifal ha la prima trasformazione). Non si tratta qui di semplice erudizione, ma di far deflagrare il riferimento culturale, semmai ce ne fosse ancora bisogno, visto che ormai ne abitiamo solo le macerie, nell’estasi o nella catabasi finale assumendo i caratteri dell’Altrove, dell’ascesi mistica che spezzi, infranga appunto quella parete, quell’iconostasi di cui dicevamo che separa l’espressione dall’esperienza diretta e dallo spettatore stesso che nella misura e nelle condizioni a lui più congeniali da semplice vedente deve farsi in qualche modo veggente. Aprire gli occhi dunque alla luce della visione. Varcare i limiti della sala e proiettarsi a nostra volta al di là dello schermo.
È chiaro che qui si pone anche il limite non solo della visione o della visionarietà, ma anche dell’espressione artistica tout court e che quindi non si può delegare tutto a un’opera al di là delle sue qualità; quindi credo che bisognerebbe guardare a questo Parsifal come a una sorta di scala da cui disfarsi, una volta salita, per dirla alla Wittgenstein, non considerarlo cioè un semplice passatempo ma per una volta un argomento non solo di riflessione ma di meditazione su ciò che siamo o non siamo o che potremmo, volendo, anche, eventualmente, essere.
Per quanto riguarda poi la forma di questo film ci sarebbero molte cose da dire, a cominciare dall’aspetto multimediale, all’integrazione col parco attori o “corpi poetici”, come li chiama Filiberti, che riescono a interpretare non tanto dei ruoli ma quelle che potrei definire delle vere e proprie epifanie funzionali al discorso generale. Cito a tal proposito i Primi Piani. Non so se ci avete fatto caso ma nella maggior parte dei film italiani sono pochi, e non so se sia colpa degli attori o dei registi, ma sono veramente pochi coloro che reggono un Primo Piano, ammesso che questo esista nel nostro cinema. Qui invece ho trovato che i piani ravvicinati ricordino quelli della Hollywood degli anni migliori – quelli che nei ricordi della mia infanzia mi facevano uscire da certi cinemini parrocchiali, dove si proiettavano i vari kolossal storico-biblici alla Cecil B. De Mille, in una sorta di attonita fascinazione che perdurava per ore fino a sostituirsi al consueto corso delle cose proiettandomi in un altrove, una sorta di empireo in cui la fantasia dominasse sulla prosaica dimensione dell’attualità – così come i riferimenti al cinema americano siano presenti assieme ai soliti che si citano, quando si parla di Filiberti, più per pigrizia che per un reale intento di pensiero, i vari Fassbinder, Visconti, Sirk ecc. Ovviamente i registi summenzionati c’entrano, ma non come citazioni pedisseque ma come riferimenti o veri e propri detriti di quel contesto culturale globale, artistico, filosofico, sociale e adesso pure ambientale, di cui questo film nei limiti dati dall’espressione cerca di testimoniare e forse indicare se non una via, almeno dei nuovi orizzonti di visione. Da questo punto di vista, e dal momento che nel film si parla espressamente di nostalgia anche se in termini più “essenziali”, vorrei aggiungere che sul piano prettamente visivo mette in atto quella che spesso per certe produzioni moderne, peraltro assai rare, ho definito “cinema del congedo” o appunto “della nostalgia”, e che riguarda l’impossibilità di ri-proporre certi stilemi del cinema classico in seno alla modernità (penso al cinema di un Michael Mann, o a certe suggestioni di Terrence Malick, ecc.). Ecco ancora che quei “buchi neri”, come li definiva Deleuze riferendosi ai PP che sembrano esondare dallo schermo di un cinemascope per attrarci dentro come in una spirale cosmica, divengono qui i simulacri o meglio diruti di qualcosa che abbiamo irrimediabilmente perso anche se solo risalenti a pochi decenni fa, figuriamoci se ci riferiamo alle rovine che stiamo abitando dopo il crollo di tutti i fondamenti avvenuti già all’inizio del secolo scorso.
Per quello che riguarda l’aspetto multimediale, dal momento che sono presenti qui componenti di musica, lirica, letteratura, danza, pittura, ecc., la cosa non è certo nuova nel cinema. … Ma qui in questo Parsifal c’è una componente in più che è la lucida consapevolezza, sulla quale tornerò in seguito, di un tracciato artistico e personale che richiede forse una maggiore attenzione se non altro per lo sforzo e la dedizione di tutti coloro che hanno lavorato al progetto, dal regista al direttore della fotografia Mauro Toscano (con i suoi eloquenti PP appunto, all’uso sapiente dei doppi fuochi, la commistione fra analogico e digitale in funzione narrativa fino ovviamente all’uso contestuale delle luci); all’autrice di folgoranti scenografie, Livia Borgognoni, alla mai elogiata abbastanza Valentina Girodo, che ha curato il montaggio esemplare a quattro mani con Filiberti, fino a tutti gli attori: a cominciare da Diletta Masetti che si destreggia fra una mefistofelica Kundry e un’angelicata Maddalena alias Elizabeth, fin quasi a ipostatizzare la questione dell’io scisso perfino dalla mera teatralità per assurgere con tutti i crismi della trasfigurazione a un effettivo ed effettuale “corpo poetico”; stesso discorso per Matteo Munari, reduce da una sorta di catabasi finale che mi ha fatto perfino dubitare della sua stessa presenza in carne e ossa hic et nunc, qui e ora, ri-velandosi quasi in effige come simulacro di qualcosa d’Altro; e poi ancora Giovanni De Giorgi, Luca Tanganelli, Elena Crucianelli, Zoe Zolferino, e naturalmente la fotografa di scena Francesca Cassaro, artefice dello splendido corredo fotografico del libro. Tutti loro hanno contribuito con impegno e passione a un progetto che ha veramente pochi riscontri nel peraltro deludente panorama italiano. Solo per questo e al di là di ogni giudizio di valore, penso che meriti di essere visto o finanche stra-visto.
Per concludere vorrei riprendere per un attimo il parallelo con Carmelo Bene che ho affrontato in un mio saggetto accluso al libro, tentando per una volta di evadere dai classici peana e dalla mera agiografia d’occasione e prendere questo Parsifal e il suo f-autore come una sfida mia personale, una sorta di “contro Filiberti”, parafrasi spero non troppo irreverente se non apertamente comica, di quella avvenuta fra Nietzsche e Wagner. Contro, in primo luogo anche se non in maniera avversativa, la lucidità, questa sì quasi mefistofelica di Filiberti, per cercare di inclinarla sebbene creativamente attraverso una contro-scrittura che se ne appropri in termini di Aufklärung o meglio di Aufheben, di superamento dialettico in senso hegeliano. Prendere cioè di sguincio o in contropiede come una sorta di mossa del cavallo il suo brillante o meglio “lucente” costrutto e commento teorico. Non tanto quindi per operare una sorta di pars destruens dopo averne di fatto delineata una fin troppo costruens, quanto per riprendere sotto tutt’altra forma un giudizio piuttosto tranchant da parte di Cioran, il quale trovava patetico ogni tentativo di delucidazione o peggio di spiegazione delle proprie opere da parte degli autori o presunti tali, per metterne in luce le aporie costituzionali in termine di espressione. Cos’è che ci costringe dunque a parlarne e a me stesso di scriverne quasi fino a volerne saturare il senso? Se alla decostruzione programmatica di C.B., che non ha fatto altro che lubrificare la corda dell’impiccato fino a distorcerne la lingua oltre il palato e fuori dai denti in una sorta di strangolamento del senso, si oppone qui una specie di bulimia del significante che lo fa esondare, come abbiamo detto, oltre l’espressione, quasi questa non ci bastasse più; e soprattutto per quanto riguarda la questione dello ieròs, come affermava Henry Corbin, dove il discorso stesso sul Sacro costringerebbe quest’ultimo a ripetersi sotto una forma archetipica, riportandolo cioè surrettiziamente sotto il primato del logos, qui verrebbe proprio da appellarsi finalmente alle sacre leggi del silenzio. Condannati al linguaggio come siamo in questo nostro essere, già da sempre gettati in una parola che ci parla da un altrove e dalla quale nostro malgrado siamo parlati, in questa deriva continua del senso fino a smarrirsi nelle lande desolate di quel nulla che ci ha partoriti, ecco allora che questo nostro stesso naufragare oltre le derive del senso ci dà la misura e nello stesso tempo i limiti, i margini di qualsiasi tipo di espressione, finanche nell’immane tentativo, come avviene in questo Parsifal e nell’arte in generale, di delinearne i confini. Di nuovo è la parola stessa che deve darsi come immagine sia nell’anabasi finale che nella catabasi di quegli stessi “corpi poetici” che sembrano volersi affrancare dal loro stesso carico di finte e forse per questo più vere sofferenze, “inverando” appunto ciò che noi in forza del nostro fardello di vita possiamo solamente immaginare o finanche vivere in prima persona sull’onda di una “divina mimesis”.
Testimonianza dunque più che rappresentazione, il Parsifal si dà come ipostasi e/o inveramento dell’impossibilità di comunicare l’incomunicabile finendo col disvelare sé stesso come manque rispetto a una condizione che accenna solo senza mostrare. Da qui quella sorta di fastidio, quel disturbo da saturazione che non solo il discorso sul Parsifal e il Parsifal stesso in qualche misura possono incutere, quanto la stessa espressione artistica alle soglie dell’avvenuta catastrofe che ci fa tutti reduci di un passato che ci determina in quanto esseri gettati sempre e comunque in quel qui e ora che, pur determinandoci, ammutoliti come siamo, non riusciamo mai ad afferrare.
Grazie a tutti e buona visione.
CAIN
Filiberti, autore molto curioso, non riconciliato … nulla è casuale in quest’opera pregevole che si nutre di paesaggi naturali in spregio delle volgarità ed umane tentazioni di oggi, notti e tramonti “contro” le prove corruttrici del teatro, come forse Byron voleva dimostrare. E il cast è bello, infelice, aulico.
«Il Corriere della Sera» M. Porro
La tragedia fa da contrappunto a un’altra dicotomia, quella tra caos e armonia di gesti e performance vissuti come visioni “byroniane”, in squarci tra l’onirico e il performante, fotografati come in un film di Rainer Werner Fassbinder. Marco Filiberti … dimostra anche con Cain di avere un talento difficilmente imbrigliabile … Quello di Filiberti resta uno sguardo uguale a nessun altro, capace di rendere palpitante la materia melodrammatica dei suoi film senza paura di risultare aulico.
«Film Tv» M. Gervasini
Cain dramma di passioni … Filiberti attualizza Byron nutrendosi di teatro e letteratura …
«La Repubblica»
Notturni ed aurore, alberi fosforescenti e pleniluni romantici. Cavalli bianchi nelle nebbie e sterminate colline senesi. Una cornice di eventi naturalistici che tuttavia fuggono talora nel visionario e nell’onirico a contenere – se si può contenere – l’ultimo lavoro di Marco Filiberti, artista-autore di notevole spessore intellettuale e dalle infinite domande. Elementi che lo rendono un regista controcorrente nell’attuale sistema teatrale-cinematografico, sulla cui vacuità egli insiste in quest’opera, dove i byroniani Manfred-Cain coesistono in un melodramma contemplativo e filosofico, sulfureo e drammatico, in cui ogni suggestione precedente è filtrata attraverso una spiccata originalità. Dove è la bellezza e dove è la verità? Quale il loro confine? È una delle domande che il film – un teatro nel teatro (ma anche un teatro-cinema liberamente oscillante tra le due forme) – si pone e che Filiberti sgrana attraverso “quadri” ove sogno, danza, parola, orrore ed anche morte si intersecano quasi spiegandosi l’un l’altro con continui rimandi tra morte e vita, tra prova sul palcoscenico e prova nella realtà, fra l’orrore per l’attuale caos e nostalgia di una passata armonia … Filiberti dipana il suo racconto viaggiando tra finzione e realtà, chiedendo ed ottenendo dal cast una partecipazione emotiva ed una verità di accenti cui la musica non invasiva conferisce il timbro della sincerità. Corpi e nature, interni e “paesi”, fotografati come un ciclo pittorico, alleggeriscono il film, di per sé molto esigente, e coronano di attimi di poesia la meditazione accesa di Filiberti sull’uomo e la storia, cercata dall’autore come Diogene con la lanterna.
«Città Nuova» M. Dal Bello
C’è sempre un’immagine da catturare in Cain da fermare, prima che questa sfugga via … Dopo Poco più di un anno fa e Il compleanno, anche Cain è un altro film sul corpo … Filiberti sembra davvero abbattere i confini tra teatro e cinema. C’è sicuramente la lezione di Visconti, ma nella apparente solarità sembrano scorgersi anche le tracce di Branagh di Molto rumore per nulla. C’è una consapevolezza di sguardo notevole in Cain, piuttosto anomala nel cinema italiano di oggi. Che fa vedere anche le crepe di un sistema produttivo corrotto, ma non ne fa mai denuncia aperta. Anche se si sente proprio in quell’isolamento del casale nella campagna, dove la rappresentazione, l’arte, diventano prima di tutto un’esigenza autentica che però si scontra con le regole del mercato. Il cinema di Filiberti ha un impeto visivo romantico e tempestoso. Un cinema fisico e astratto, che fa sentire le diverse temperature emotive e gli stati d’animo più differenti. Dove tra personaggio e attore non c’è tanto identificazione ma quasi una specie di vita parallela. Come se il corpo si fosse ancora una volta sdoppiato …
«Sentieri Selvaggi» S. Emiliani
Il film vanta la partecipazione di Renato Scarpa e di un nutrito gruppo di giovani attori talentuosi … è un film colto, fuori dall’omologazione vigente. Una menzione particolare merita la fantastica fotografia di Mauro Toscano. Un film da vedere e rivedere!
«Mydreams.it» F. Brancaccio
In una Toscana dark, ossianica, un Byron da brivido … Con un certo coraggio visionario Marco Filiberti si immerge in quella riflessione poetica con Cain … e per riaccendere il coraggio ribelle dei versi byroniani, il film ricorre al dispositivo del teatro nel teatro …
«Il Venerdì di Repubblica»
Marvellous scenography and reminiscent of the style of films of Antonioni…
«The Theatre Voice» Carole Woddis
Cain has visuals of enormous resonance with a literary and questing intent… Perhaps the same Old Vic – which was once territory of the great Italian director Franco Zeffirelli – would be willing once again to embark in this intercultural challenge and help Marco Filiberti to find the right audience and the appreciation that his trilogy deserves.
«Mariankennedy.com»
There is also some superb acting across the board… Filiberti should be praised for the way he has successfully combined two, if not three, genres seamlessly behind the camera, creating a compelling and dark drama that does, on occasion, become a work of art.
«The Ice Forest Film Review»
Eppure le immagini dovrebbero interrogarsi, non sono una specie protetta. Augurerei al cinema queer italiano di scappare dalla propria sede, e scegliere l’estasi del disorientamento, il pericolo e i rischi dell’autoerotismo. Da noi sono in pochissimi che osano contemplarsi. Che credono che il cinema debba cercare ininterrottamente una ragione non per ma nelle immagini. Che nelle immagini fanno dunque affidamento, alla larga tanto dai moralismi quanto dalle adulazioni di casta delle prediche ai convertiti. I film di Marco Filiberti, Poco più di un anno fa – Diario di un pornodivo (2003), Il compleanno (2009) e Cain (2015), provocano il buon gusto allontanandosi con presunzione dalle immagini consolidate del cinema italiano “in tema”, ma è esattamente nell’arroganza che Filiberti trova la libertà delle immagini stesse: percorre una strada poco battuta dal mercato locale, a metà fra l’esibizionismo in prima persona, il mélo, il teatro e il camp; non rinuncia alla malizia stereotipata (come l’uso della musica pop in chiave queer icon: la scena con Maledetta primavera di Loretta Goggi in Il compleanno è paradigmatica); tenta la carta dell’ispessimento dei sentimenti, al fine di renderli eccessivi e prepotenti. È un cinema squilibrato, ma vivo, perché inquieto e teso a non arrendersi e a non completarsi. Nelle immagini di Filiberti si intravede un nomadismo non soltanto ideologico ma principalmente estetico, ovvero tutto il contrario della matematica inerte del cinema italiano medio. Non occorre guardare a Filiberti in qualità di autore con una poetica: nei suoi film le immagini corrono e si ammirano, recuperando qua e là un senso queer non ortodosso.
«Dove sono le immagini? Alla ricerca di un cinema queer italiano»: di Pier Maria Bocchi.
IL COMPLEANNO
Filiberti, talento del cinema off, fa un film imbevuto di umori viscontiani… Opera coraggiosa, di sensualità espansa, il super melò promette molto in un’atmosfera barocca… con un cast magico dove primeggiano la De Medeiros e Gassman, ma la scoperta è Massimo Poggio”
«Il Corriere della Sera» Maurizio Porro
“Un melodramma raffinato e a tinte forti… affidato ad un cast di efficacissimi attori”
«Il Messaggero» Gloria Satta
“Una standing ovation di dieci minuti ha accompagnato la proiezione de Il Compleanno….applausi più che meritati per un film italiano ambizioso che non ha paura di abbandonare le strade minimaliste del nostro cinema per abbracciare la tradizione del mèlo da Sirk a Visconti fino ad Ozon”.
«Close-Up» Giovanni Spagnoletti
“Marco Filiberti mette in scena un melodramma raffinato, ma non privo di tocchi di humor, alludendo a Visconti e al fiammeggiante mélo hollywoodiano di Sirk”
«La Repubblica» Roberto Nepoti
“Marco Filiberti non è un regista come gli altri… è un intellettuale di una finezza che raramente si può incontrare in chi fa il “cinematografaro” di mestiere. La prima cosa che sorprende di Il Compleanno è come il regista riesca a “tenere” tutte le suggestioni che intende inserire nella drammaturgia in una struttura narrativa semplice e lineare. La verità è che Il Compleanno è innanzitutto un formidabile update dei codici del melodramma viscontiano … il regista è davvero un’ipotesi di “Visconti del Terzo Millennio”, ma che possiede al tempo stesso una vitalità e una capacità di essere sempre “dentro” le cose che racconta. Il Compleanno rischia di essere equivocato proprio perché “troppo colto” e intelligente, e soprattutto molto poco italiano nella definizione di caratteri e situazioni. Ma dietro lo strato di motivi culturali, soggiace un’anima, e soprattutto carne viva: anche queste sono rarità per il cinema italiano”.
«Cinema Avvenire» Sergio Di Lino
“Un’opera raffinata, neoclassica, come da tempo non se ne vedevano”
«Blow Up Cinemagazine»
“Splendido film, sincero, impietoso nel mettere in scena un desiderio che travolge tutto diventando ossessione e generando un dolore che è quasi fisico … Cinema d’alta qualità che attraverso il genere melò sceglie di parlare di noi con le nostre paure, evidenziando il male oscuro dei nostri tempi”
«Arte e Arti Magazine»
“Filiberti è finalmente l’esempio di un regista italiano che non ha paura di niente…il suo film riesce a buttarti addosso tutto il suo piacere, il suo erotismo, e il suo dolore incarnato… con momenti di grande cinema. Il Compleanno segna un ulteriore e deciso passo in avanti rispetto alla promettente opera prima, materializzando un mondo interiore che esce fuori con un impeto incontrollabile”
«Sentieri Selvaggi» Simone Emiliani
“Tutto in questo film ha un valore e un peso…è un racconto epifanico che risveglia tutti i sensi attraverso l’immagine, i colori e le luci (vista), attraverso le musiche (udito), lasciando l’amaro in bocca (gusto) e invadendo l’atmosfera di odore di salsedine (olfatto) che risalta l’attenzione per il corpo che la macchina da presa sembra voler sfiorare (tatto)”
«Moviesushi.it» Tania Sollazzo
Filiberti rinverdisce i fasti del melodramma cinematografico con raffinata ed elegante modernità. La sua è opera diversa. Diversa dai canoni sui quali si muove solitamente il cinema di casa nostra. Osa molto il cineasta, e scruta tra le pieghe dei suoi personaggi e della realtà che li circonda senza cercare scorciatoie furbe e scene da captatio benevolentiae. Bravissimi tutti, nessuno escluso. Difficile incontrare una simile perfezione stilistica e filmica.
«Film Review» Maria Pia De Rango
Il regista è bravissimo a dirigere un “teorema” che chiama anche lo spettatore a denudarsi di pregiudizi e resistenze e a immedesimarsi con qualcuno dei “corpi al sole” travolti dall’insolito destino. Il film è coraggioso come raramente il/nel cinema italiano. Generoso tutto il cast, ma spicca Massimo Poggio in un ruolo difficilissimo.
«Film Tv» Mauro Gervasini
Lo stile di Filiberti è sempre raffinato, così come la sua capacità di mettere in scena un melodramma dai toni vivaci. Non indulge mai al facile effetto e dosa ogni ingrediente con equilibrio.
«Ciak»
“Il Compleanno, un titolo destinato a lasciare il segno”
«Il Messaggero» Marco Müller
“Un Compleanno meraviglioso. Qui si sfiora il capolavoro … Una bella sceneggiatura e un’approfondita analisi psicologica dei personaggi rendono l’intera opera imperdibile. Ottima l’interpretazione di tutti … ma assolutamente eccelsa la prova e il grande contributo di Massimo Poggio in un ruolo difficile, scomodo … e forse perfino pericoloso in un paese che vive con i paraocchi”
«Bluevelvet»
“L’opera seconda di Filiberti è un film di indubbia forza ed efficacia che ricorda le più cupe opere di Woody Allen come Interiors”
«Cinemaitaliano.it» Giovanni Galletta
“Nulla sarà come prima per i protagonisti del film come anche per gli spettatori”.
«Dazebao.org» Davide Muscillo
“Il Compleanno di Marco Filiberti, una delle opere più belle presenti alla Mostra di Venezia”
«Film Tv» Massimo Giraldi
“Non c’è nessun dubbio sulla drammaticità di questo film … Luci che si stemperano e accendono il focus con intensità crescente, suggerendo aperture e trame tra tutti i personaggi … Un bel film con tutte le parti al proprio posto di un regista giovane e colto, un film per tutti”
«Gothic Network» Livia Bidoli
“Filiberti conosce molto bene Visconti. E si vede … La maestria di Filiberti nel giocare con queste suggestioni non la si coglie, comunque, solo nella precisione certosina con cui si muove questa messe di riferimenti colti, quanto, piuttosto, nell’abilità con cui essi vengono aggiornati alla sensibilità moderna senza mai perdere quel rigore rappresentativo che pure era caro a Visconti … Come “Gruppo di Famiglia in un Interno” … anche il Compleanno costituisce un’accorata riflessione sul senso del Nuovo che irrompe forzosamente nel chiuso di una coscienza … Il film ci racconta tra le righe un Italia sempre più ossessionata da modelli culturali retrivi e da un radicale abbandono della cultura e dello studio in favore di un mondo di più facili guadagni. Un mondo berlusconiano dove la famiglia sempre più si sgretola lasciando intravedere, oltre il sesso, un disperante vuoto di valori.”
«Close-Up» Giovanni Spagnoletti
“Massimo Poggio diventa man mano il protagonista dimostrando una bravura sorprendente … Filiberti sa muovere con padronanza la macchina da presa e sa creare le giuste atmosfere di tensione fra i personaggi”
«Radiocinema» Alessandro Aniballi
“Compleanno da applausi: ottima accoglienza per il melo’ di Filiberti: “vivere di passione unico modo di afferrare la vita”… Ottima la prova recitativa di Massimo Poggio.”
«Cinematografo» Giuseppe Zaccaria
“Al di là del buon cast … è la fotografia fortemente contrasta di Roberta Allegrini a rappresentare uno dei lati più interessanti dell’operazione… mentre Filiberti … sfoggia una regia decisamente apprezzabile”
«Film Up» Francesco Lomuscio
“La passione crescente giunge come in un melodramma moderno alla sua conclusione elegantissima ed efficace lasciando nello spettatore un senso di commozione profonda … una pellicola di una profondità tale come in Italia non si vedevano da molti anni, quasi un dramma di Anton Cechov per come tutti i protagonisti sono descritti e definiti.”
«AGI Agenzia Giornalistica Italiana»
“L’analisi specificatamente estetica del film Il Compleanno si schiude su un manufatto di prestigiosa e preziosa fattura. Filiberti si muove sulle note del wagneriano Tristano e Isotta, sfiora la Recherche di Marcel Proust, si ferma con suadente palpito sul mistero della coppia, per slittare infine, con grazia merlettata, sulla “Allegrezza cosmica” della sensualità. L’assunto tematico si staglia, con la perfezione di un mosaico, quando dalla “geografia ideale” si passa ai meandri imperscrutabili dell’animo umano …Gli attori secondano con esatta scansione timbrica le attese del regista”
«Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani» Gregorio Napoli
Ciò che si palesa subito è l’assoluta anomalia de Il Compleanno all’interno dei percorsi ai quali ci ha (maldestramente) abituato il cinema nostrano … E’ nella speranza di una fuga nell’utopia estrema … di una recherche del tempo perduto che non tornerà mai più, che i protagonisti diventano gli artefici involontari di un gioco al massacro che non potrà che condurre alla dissoluzione, non tanto delle scelte borghesi quanto dello status stesso di famiglia (nel suo più alto senso etimologico), senza dubbio l’asse attorno al quale ruota l’intero senso della messa in scena architettata da Filiberti, debitrice della lezione dei grandi maestri del melodramma cinematografico Sirk e Fassbinder … Brava la Cescon, millimetrica, per precisione e intensità la resa attoriale di Poggio, letteralmente folgorante la De Medeiros … ci rammarichiamo di un utilizzo fin troppo parco di un attore di livello come Christo Jivkov e esultiamo per la sempre ottima interpretazione di Piera Degli Esposti.
«Cineclandestino» Raffaele Meale
“Sgargiante luce solare che nasconde le ombre dell’anima come nei mélo di Sirk e un cast fascinosamente sensuale”
«Il Messaggero» Francesco Alo’
Il regista mette in scena un neo-mélo a tesi, quella appunto dell’inautenticità della contemporaneità. Tragedia ineluttabile che spazza via il fragile equilibrio della precarietà esistenziale … Qui si respira aria internazionale
«Cinematografo» Federico Pontiggia
“Passion and obsession collide in David’s birthday. David’s birthday poses such profound questions even as it moves and involves us in the lives (and fates) of its quartet of flawed, and therefore readily recognizable, men and women. Filiberti has a number of adept directorial and visual touches: following Francesca’s emotional turmoil over the accidental drowing of a young swimmer, we get a succession of brief scenes without dialogue, narrated by the gentle strains of a violin…Finally, a climatic moment near the end of the film makes a perfect, operatic bookend for the opening scene of the film at the opera.
«ArtsForum Magazine» John Arkelian
“E’ molto curiosa e variegata la carriera artistica di Marco Filiberti. Ha frequentato teatro, cinema e sale di registrazione. Ha unito Brecht e Ariosto. Ha proposto sé stesso come tratto forte di un film che ha suscitato scalpore e scandalo. Adesso si è cimentato in un’importante produzione internazionale. Ha forse una specifica identificazione che unisce tutte questi trascorsi così eccentrici: la passione per il melodramma. Il suo nuovo film è una ronda amorosa, un turbine emotivo che si scatena in un contesto mediterraneo. Queste passioni hanno una dimensione carnale … Qui le reminiscenze classiche – Ulisse, la maga Circe, il contrasto dell’uomo con la forza prorompente della natura – hanno conseguenze che modificheranno definitivamente la vita dei protagonisti. Nulla sarà mai più come prima, ogni personaggio dovrà fare i conti con un passato che non c’è più. Sono le leggi del melodramma che richiedono sentimenti forti, passioni travolgenti, modifiche che invadono i personaggi, comportando vere e proprie mutazioni genetiche…. La grande forza di Marco Filiberti consiste nel portare all’estremo tutto questo, nell’osare, nel mettersi in gioco. Il cinema contemporaneo ha bisogno di melodramma. Ha bisogno di emozioni forti, di momenti di suggestione che superino la contemporaneità. In questo, Filiberti ha fatto tesoro della propria carriera. Non si può restare indifferenti di fronte a un lavoro che non ha nulla di sommesso, di pacato, di mediato. Come la vita, come l’amore.”
«Steve Della Casa», dal libro Il Mélo Ritrovato – Il Compleanno di Marco Filiberti (ed. De Luca Editori d’Arte)
POCO PIU’ DI UN ANNO FA – DIARIO DI UN PORNODIVO ADORED – DIARY OF A PORN STAR
Un oggetto non identificato e sorprendente. Con lo spudorato coraggio di esporsi che non vuol coincidere con la volontà di trasgredire. Un’esposizione frontale di corpo e anima…riflessioni meditate su morte e amore, solitudine e narcisismo…tra cortocircuiti almodovariani e suggestioni jarmaniane, Riki e la sua amica Luna cercano solo di dare emozioni alle persone. Sanno che la paura mangia l’anima, e vogliono solo che li si ami.
«Duel» E. Alberione
Poco più di un anno fa, opera prima che i tedeschi hanno amato subito e che in Italia ha già spaccato in due pubblico e critica. Marco Filiberti ha scelto per la sua opera prima di vestire i panni (scomodi) di un pornodivo gay, stupendo per intensità e bravura. Non solo: ha scritto un copione calibratissimo, ha diretto una bella pattuglia d’attori con piglio inusuale al nostro cinema e ha posizionato la sua messa in scena sulle coordinate della commedia rammatica americana degli anni ’50.
«Film TV» A. Fittante
Marco Filiberti, raffinato regista laureato in Proust, dirige e interpreta senza veli e soprattutto senza moralismi, vita e suicidio di un pornodivo gay per bene. …Un autore coraggioso, che sa come e perché raccontare… con alcuni difetti speciali, ma anche sapienza narrativa e originalità fuori dal cinema omologato.
«Corriere della Sera» M. Porro
Bisogna dire che è difficile trattare argomenti così, in maniera persino poetica. Filiberti è riuscito nella sfida. Il suo è un film che più dell’hardcore, più dell’omosessualità, più dei pregiudizi parla di rapporti umani … Tutto il film vive di un incontro-scontro tra una carnalità che tiene i personaggi attaccati ad una sensazione terrena delle cose ed un anelito a qualcosa che va ben oltre. Gli angeli, che siano bambini, adulti o sculture, ricorrono spesso nel film quasi a significare una trascendenza delle vite di tutti. Una trascendenza che non ha nulla a che fare con la religione, ma che anzi, è tanto più vera quanto più è legata ad un’urgenza di vivere. Il film parla anche del bisogno di diventare qualcuno per dimostrare di esistere… Forse il film di Filiberti è una delle maniere più sincere per dire che, anche nella diversità, ogni persona potrebbe essere un angelo.
«Film UP»
Filiberti impone una fisicità che ci ricorda il compianto River Phoenix di Belli e Dannati.
«Il Messaggero»
In questo periodo spicca solo Poco più di un anno fa, notevole esordio dell’autore e attore Marco Filiberti, consigliato ai cinefili e agli “impegnati” sensibili alle tematiche e alle ossessioni “alla Fassbinder”. Cinema-teatro di confine, passioni che contorcono alla Sirk, messinscena a tinte forti secondo uno strano intreccio tra il cinema di Visconti e il “mito” di Moana Pozzi. Si presenta così l’esordio coraggioso di Marco Filiberti … questo affascinante film parla di emozioni intense, di passioni esagerate …
«Ordine e Libertà»
Uno sguardo assolutamente provocatorio, illuminato e truccato come per un fotoromanzo: quello sguardo è Poco più di un anno fa…la storia di un desiderio di immortalità … ma allo stesso tempo il racconto drammatico della solitudine, dell’illusione del successo, dell’incapacità di innamorarsi di un personaggio che spinge fino all’eccesso il suo egocentrismo.
«Il Sole 24 Ore»
Esagitato. Colorato. Iperrealistico e classico allo stesso tempo. Melò, commedia e malinconicamente drammatico. Sincero, diretto, a tratti sgradevole altre grottescamente ingenuo. E’ tutto questo l’esordio registico di Marco Filiberti, presentato con straordinario successo al recente Festival di Berlino – sezione Panorama – . E’ già una rarità un debutto cinematografico che non solchi la tradizione realista e neorealista di tanto cinema italiano, ma è ancor più “merce preziosa” il talento di un regista/sceneggiatore/attore che non si lascia incastrare nei perversi meccanismi di un cinema commerciale o intellettualistico autoriale che tanto danno hanno arrecato agli esordienti del nostro cinema. E così, ecco, nascere la storia della celebre porno star gay Riccardo Soldani, in arte Riki Kandinsky (un Marco Filiberti attore generoso ed appassionato nel mettersi “a nudo” in prima persona non risparmiando in intensità e verità). Ma nessun intento dell’autore di realizzare l’ennesima pellicola “gaia” tanto di moda in questi recenti anni di ipocrita e consumistica tolleranza, ma l’ambizione ancor più temeraria ed emozionante di raccontare l’incontro/scontro della conoscenza dell’altro da sé… Marco Filiberti colpisce “semplicemente” al cuore con una storia d’amore tra due fratelli come raramente il cinema italiano ha saputo raccontare … Un film che nel suo incontrollato caleidoscopio di umori, suoni, colori ed emozioni è destinato a lasciare una chiara impronta nel piatto e spesso edulcorato panorama della produzione cinematografica italiana. Così alcuni personaggi irrisolti ma ipnotici (come l’amica Luna, della sempre bella ed intensa Rosalinda Celentano), alcune scene madri tenute in precario ma emozionante equilibrio (la confessione straziante di Angela, che ci regala una Erica Blanc perversamente sincera ed umana), alcuni snodi narrativi poco chiari (i traumi familiari di Riki) diventano la perdonabili e fascinose imperfezioni che rendono ancora più prezioso questo piccolo gioiello che speriamo il mercato premi e così sperare in un’opera seconda di Marco Filiberti che siamo certi saprà continuare a raccontare con più controllate ma sempre sincere emozioni le vita di “ Angeli”… lontani dal Paradiso!
«Cinema con Arte»
Poco più di un anno fa è una spiazzante opera d’esordio che mette in luce un autore-attore italiano assolutamente anomalo nel detestare il realismo e puntare al Sublime.
«Duel»
Con un’opera prima che stupisce ed emoziona, s’impone un nuovo nome, Marco Filiberti, che entra di diritto nell’olimpo dei grandi debuttanti… Talentuoso regista/attore d’area fassbinderiana, ama un mondo di dinamiche sirkiana, magnifiche ossessioni, specchi della vita e umori viscontiani … forse perché assomiglia così tanto a Helmut Berger o forse perché i suoi modi di interagire con il cinema si alimentano del coraggio dei semplici e dell’insolenza dei puri. Ambiziosa eppure umile, e cromata di quelle sfumature che dividono (gl)i (iper)sensibili da coloro che rifiutano per paura ogni tipo di confronto, la sua opera prima luccica di emozioni, esplode amore, irrompe nelle lacrime, contorce e meraviglia. Piovuto dal cielo, Filiberti accompagna i suoi attori in uno stato di grazia … e stupisce anche nei panni di Riki Kandinsky, manipolando con squisita leggerezza materie narrative di frontiera, svelando fragilità e corpo. Compresi ventiquattro centimetri di orgogliosa vanità.
«Film TV»
Su tutto il film aleggia un’aureola mistica e simbolica che incarna il desiderio del tentativo da parte del protagonista di donare alla propria figura una corporeità diversa, quasi inconsistente, nonostante la grande fisicità della professione che esercita, insieme all’anelito di redimere il mondo attraverso l’utopia dell’arte e della sua capacità di polverizzare il tempo ed il conseguente oblio.
«Sentieri Selvaggi» S. Emiliani
Grazie al suo regista e interprete, il performer teatrale Marco Filiberti, simpatico come un folletto shakespeariano uscito dal Sogno di una notte di mezza estate, Poco più di un anno fa è un’opera tremendamente vitale … Marco Filiberti affronta brillantemente due tabù che di solito sconvolgono il giovane cinema italiano: il corpo e l’amore gay. Non è poco. … Un frullatone kitsch di divismo e autoironia. Manifesto da urlo, ma titolo sbagliato.
«Il Messaggero» F. Alò
L’amore è la materia di cui è plasmato il film di Filiberti che ha raccolto grandi applausi a Berlino oltre a suscitare notevoli curiosità intorno al multicreativo regista/ protagonista/sceneggiatore … insomma una gara stile “ due o tre cose che so di lui”… Ben lontano dal film italiano carino o politically correct, girato con toni melò anni cinquanta e dialoghi di leggerezza ariosa e profondità d’animo, il film apre spunti di riflessione sul divismo, la favola nonsense narcisista, le relazioni umane, le apparenze. Insomma qui si parla dell’amore senza se e senza ma … sprigionato dall’eterea Luna (meravigliosamente interpretata da Rosalinda Celentano), essere misterioso che canta il bosco profumato di Riki/Filiberti e che quando parte alla ricerca di altri territori da esplorare, lascia in realtà una scia di vuoto irreparabile.
«Il Manifesto»
Un film importante, controcorrente, destinato a restare…
«Guide Magazine»
A Berlino, il cinema italiano, di solito così soft, spara un’icona gay nel firmamento del festival e conquista pubblico e critica.
«Libero»
Con le giarrettiere di Richard Gere, i glutei di George Clooney e il corpo di Riki Kandinsky… il nudo maschile entusiasma Berlino.
«La Stampa»
Un tipico pubblico berlinese, commosso e partecipe, ha accolto l’ultimo italiano del Festival, Marco Filiberti. Come Fassbinder o Rosa von Praunheim, il giovane cineasta costruisce un melodramma gay sulla biografia di una star dell’hard … a dominare un cast ricchissimo di presenze è proprio lui, Marco Filiberti, che è Riki Kandinsky con suggestivo esibizionismo.
«Tam Tam Cinema»
Bello, androgino, palesemente narcisista, sorta di novello Helmut Berger italiano, si chiama Marco Filiberti. Ed è coraggioso, anche. O incosciente, a scelta e stampa nel cinema italiano un’icona sexy/gay/androgina che ancora non c’era.
«Kataweb Cinema»
Diretto con stile nel contempo incisivo e lieve, Poco più di un anno fa è un viaggio nelle umane fragilità ricco di poesia, intenso e avvolgente, che si rifà ad un certo cinema americano ed abbraccia la dimensione emotiva, lirica, del mondo classico. Nel film c’è la sottile inquietudine di Hedwig, la sensualità sfacciata di Boogie Nigths, ma anche una levità antica, una melanconia che affonda lontano le sue radici…di rara intensità e con una presenza scenica non comune nel panorama nazionale è Marco Filiberti. Un film commovente, profondo, che rinuncia ai facili ammiccamenti e alle ipocrisie, un’opera matura e pulsante che arriva nel profondo, come lo sguardo del suo protagonista.
«Cinema Oltre»
E decisamente la sorpresa della stagione è questo film diretto, nonostante le tematiche non facilissime, in maniera estremamente delicata ed elegante da Marco Filiberti, che, tra l’altro, veste i panni del protagonista, offrendo un’interpretazione in grado di coinvolgere emotivamente lo spettatore.
«Virtualmilanocinema»
Filiberti, sin dalle prime scene, ha pensato e realizzato un film che non accetta le mezze misure, che si ama o si odia … Filiberti ha il pregio di allontanarsi da molti dei vizi e dei difetti che accompagnano gli esordi dei nostri registi. Poco più di un anno fa non è l’ennesima opera minimalista, solipsistica, morettiana, ombelicale, che riesce a guardare solo negli appartamenti di un condominio, è un film concepito come un’opera bigger than life, con un personaggio che vuole farsi accettare e poi amare, senza concessioni alla retorica.
«Cineforum»
Osannato al festival di Berlino … Poco più di un anno fa è già un cult.
«Il Secolo d’Italia»
Riki/Filiberti crea un’icona angelica e new age capace di comunicare al mondo il proprio edonistico benessere svelando la verità nascosta dal perbenismo.
«Il Mucchio Selvaggio»
La prise de role nel cinema da parte di Marco Filiberti mi ha ricordato gli esordi, nel mondo musicale, di Renato Zero negli anni ’70: mai visto niente di vagamente simile prima d’ora, almeno in Italia. Una personalità originalissima che non prende in prestito niente da nessuno, e sbatte in faccia, con una grazia inusitata, profondità abissali mascherate da leggerezza e ironia … alla proiezione alla quale ho assistito, inframmezzata da continui applausi, il pubblico non lo mollava un attimo e al termine gli ha tributato uno di quegli applausi carichi d’amore che tanti artisti non ricevono in un’intera carriera. Marco Filiberti é creatura che emana forza, dolcezza e un’intelligenza rara … con quell’aura di poesia che gli aleggia intorno, siamo certi che per il suo pubblico sarà un punto di riferimento del tutto speciale.
«Cinestar»
Scorching! A male porn star discovers the meaning of life… Marco Filiberti, in an audacious writing and directing debut, has lots on his mind and much in his heart…
«Los Angeles Times» Kevin Thomas
Marco Filiberti shows fantastic intensity and talent ..
«Screen»
Seductive! Sex, honesty and Italian porn – it’s what the word needs right now! It’s hard not feel a pang of jealousy for this blond Adonis making love to the camera. … Adored is an intensely personal film…
«Genre Magazine» Danen Frei
Charming! A bold blend of heart and soul, camp, sexual titulation and family timult into an engrossing tale…
«The Advocate» Lawrence Ferber
What’s most amazing is that the porn star is also the director and writer of the film, adding to the amazement how this intriguing, twisting, erotic story made it to the big screen with such poignancy and beauty. It’s a major accomplishment for Marco Filiberti…it’s not a gay film, not is pornographic in any way. It’s beautifully and erotically shot, directed and acted. It’s hauntingly erotic and dripping whit romance…Anyone who’s ever been obsessed with someone beautiful will become obsessed with this movie.
«Tribune Media» Mike Szymanski
With his curly blond hair and carefully plucked eyebrows, Mr. Filiberti resembles one of the pretty young man who haunted the late films of Luchino Visconti – like Bjorn Andresen in Death in Venice or Helmut Berger in Conversation Piece. Mr. Filiberti has also created a Viscontian aristocratic background for his character…
«The New York Times» Dave Kehr
Lavishly shot and designed, another throwback to the era when directors like Roger Vadim and Radley Metzger lavishly mixed sex, sets, risque humor and melodrama. Adored isn’t just a generous look at the porn business: it’s a look at life and human behavior.
«Planet Out» Loren Kin
ADORED is a superb film that smacks of brilliance on every level. The fact that this is the writing, directing AND acting debut of Marco Filiberti should alert the cinema world that a major talent has arrived…Marco Filiberti has produced so much food for thought, tender discussions about acceptance of who we are, our need for connection, and a “fabulous” look into the gay porn industry, that those who are not moved by this film will be few. The cinematography, costumes, set décor, music, and above all, the acting is all of the very highest caliber. Filiberti has unique method of storytelling that gives notice of a true creative mind on his initial venture. Not only is he a fine writer and a very fine director, he is a feast for the eyes and an actor whose magnetism in front of the camera is impossible to ignore. By all means this a film to see and purchase, as it is one of the “sleeper giants “of the year.
«Amazon» Grandy Harp
Marco Filiberti unapologetically celebrates the joy of sex, the glories of Italian men and the diversity of family…This dazzling and provocative debut celebrates the life of an unlikely hero with a healthy dose of glamour, sex and the perfect mix of melodrama
«Palm Springs Screening» Carl Spence
Riki Kandinsky is like Baryshnikov of gay male porn: beautiful, magnificent, universally Adored…Filiberti bravely sentimentalizes the hardcore sex industry in order to tell a tale of universal feeling. And the numerous musical montages from Riki’s porn sets are definitely genre ground-breakers! … Whit Adored, the high melodrama is a genre returning to vogue as Todd Haynes’ Far from heaven and Ferzan Ozpetek’s His secret life (Le fate ignoranti)
«Wire» Martin Haro
Adored trascends the clichés of conventional melodrama and looks fabulous while doing so. Marco Filiberti imbues his titular hero with a brazen intelligence…Funny, emotional, and heartrending, Adored effortlessly earns its title.
«Instinct» Josh Hamilton
Filiberti is not just another pretty face: playing in a beautiful way the sex-symbol role, Filiberti points out that Kandinsky’s huge ego is a sign of his fragility.
«Twn Film Profile» Loann Halden
The acting is just superb. Marco Filiberti, is dead-on magnificent as Riki/Riccardo. He has just the right amount of gravitas, philosopher, sex appeal, humor and compassion to make the character and film work. For a first-time director, AND first-time writer, AND firs-time actor, this is nothing short of astounding. Urbano Barberini is just as good…he handles every scene with real emotional responsiveness … Gone with the wind isn’t a realistic film about the antebellum South. Jaws is not an accurate film about shark fishing. Yet, these films are considered classic, masterpieces even. Marco Filiberti has created a film that is blatantly unrealistic in its depiction of gay porn stars and family relationships… in this beautiful film, he has created a word to believe in.
«Imdb Comments» Tim Evanson
Riki seems to be the porn star embodiment of Cupid/Eros from Greek mythos, complete with the soul of a Romantic-era literaly hero…This movie was captivating in many ways and truly a pleasure to see…
«Culture Dose» Aly Walansky
It’s not about porn or being gay. It’s about love
«Daily News» Elizabeth Weitzman
This heart – and crotch-warning paean to self – expression represents a new genre of film…You’ll laugh, you’ll cry and you’ll swoon over Riki’s prehensile mouth and come-hither look. But you’ll also be impressed by a well-written narrative that refreshingly probes the very italian, very human theme of longing for family, while subverting and appropriating the conventions of a morality play
«Bay Times San Francisco» Nancy Fishman
Filiberti, such new Valentino, is packaging of looks and brains make us long for his future roles
«The Hollywood Reporter»
VESPERO A TIVOLI
Al 54° Festival Internazionale del Cinema di Salerno il primo premio per il miglior cortometraggio è stato attribuito all’unanimità dalla giuria a Vespero a Tivoli dell’esordiente Marco Filiberti, per gli alti valori estetici e culturali e per la buona padronanza del mezzo cinematografico.
«La Gazzetta del Mezzogiorno»
Suggestioni del tutto particolari sono arrivate dal poeticissimo Marco Filiberti con il suo Vespero a Tivoli. La raffinatezza del suo essere artista riesce ad evocare addirittura Visconti, grazie anche alla forte somiglianza con l’attore-culto del grande cineasta, Helmut Berger…il pubblico americano ha molto gradito questo cortometraggio imbevuto di suggestioni europee…
«Los Angeles Magazine»
SULLE TRACCE DI MEDORA
Sofferto, sentito e commovente ritratto di Filiberti dedicato alla sua infanzia, ai suoi genitori (soprattutto sua madre, accarezzata dalle note di “Grande, grande, grande” di Mina e “Domani è un altro giorno” della Vanoni) nel quale in poco meno di 17 minuti sciorina il suo concetto di cinema malinconico (più dalle parti di Poco più di un anno fa e Il compleanno che non da quelle astruse di Cain). Filmati in super8, pezzi di Verdi e Ravel, un Filiberti che mette a nudo i suoi sentimenti e le sue mestizie (la telefonata iniziale) non rinunciando alla drammaturgia (la torre di Medora). Momenti memorabili sono la telefonata iniziale che mostra come l’arte di Filiberti non sia commerciabile o accomodante, il “no” della madre, Filiberti e i suoi sonni inquieti.
«Il Davidotti»