CAHIERS D’ECRITRE
I Cahiers d’Écriture: la lunga strada della Recherche di Proust sul palcoscenico teatrale.
L’azione teatrale si apre sulle note della Gymnopédie n. 1 di Erik Satie, pantomima, nel suo andamento nostalgico, di una mesta marcia funebre capace di solleticare delicatamente le flessuosità corporee degli attori, fissandole in un quadro d’insieme dal sapore squisitamente preraffaellita, immagine icastica di una belle dame sans merci, che sorride sardonica; ma, accanto a questa fulminea proiezione, non dobbiamo mai dimenticare che Filiberti associa anche il semantico che si annida in ogni cosa, dunque, qui l’apollineo copula con la rappresentazione del significato del termine gimnopedia, ossia dell’incedere degli atleti dell’antica Grecia, con i loro corpi scolpiti, che si mostrano prima della competizione … L’intento è chiaro, manifesto programmatico del teatro del drammaturgo e regista milanese, affisso sul portale wittembergiano del suo palcoscenico proiettato e offerto in pasto. Filiberti è, vivaddio! esigente: impone da parte dello spettatore intelligenza e sensibilità, conoscenza, anche cognitiva, e perspicacia. Quindi, la musica e la plasticità dei corpi, maschili e femminili, i primi con pantaloncini e corsetti da botteghe pittoriche rinascimentali, le seconde con lunghe tuniche da effluvi baccanti, sono già un monito: la semplicità come viatico di una bellezza eterna, vagheggiata e presente, con rimpianto, nelle pagine della Recherche. Qui, il tempio della scena è consacrato a Proust, certo, ma il romanziere/viaggiatore nel tempo è solo l’alfa o l’omega, e nel mezzo si fissa un fluttuante buco nero che tutto addensa e assimila a sé …: l’irruzione dell’arte moderna, lo sconcerto di un erotismo che non conosce mezze misure e in cui la promiscuità detta le leggi del piacere … L’introito, ergo, è pronto a ingolosire i propilei nei cui recinti galoppa il sentimento della gelosia, atto pregnante del primo cahier con il quale l’orfico Filiberti dipana la sua tela proustiana/mondana. Gelosia che viene inghiottita dagli attori/personaggi come un’ostia dell’ossessione, transustanziazione di buona parte della cattedrale Recherche … inutile, assistendo a questo quadro, cercare di piazzare un semaforo capace di veicolare il traffico delle emozioni, delle sensazioni, dei tanti rimandi che il nostro drammaturgo e regista versa in continuazione. Dall’orchestra dei corpi… si creano di volta in volta duetti e trii cameristici… il tutto cementato dall’implacabile apporto musicale, portale dal quale irrompono sempre, goccia d’acqua perenne sul marmo scalfito, ricordi onnipotenti… Queste gettate di calcestruzzo sonore fissano e creano un’impalcatura fluida, liquida, sinuosa che va a infilarsi negli orifizi delle varie scene desunte dai cartoni/Cahiers presi in esame (che, benché Marco Filiberti affermi che i due Cahiers possono essere considerati dei disegni preparatori di affreschi michelangioleschi, in realtà si tratta di schizzi di Degas, ossia opere d’arte telles quelles): qui prendono corpo la (presunta) morte di Albertine, l’ictus che colpisce Charlus di fronte a un Morel che non muove un dito, fino alla tardiva presa di coscienza di Swann, vortici dialettici che si azzuffano, cercano di chiarirsi, giungono alla resa dei conti come se il palcoscenico venisse trasformato in un gala inquisitorio dove a torturare ci pensano i gesti, le mani, i corpi, le posture, il gioco di luci (ottimo ed essenziale il lavoro fatto, a tale proposito, da Piermarco Lunghi), ancora la musica e il senso fisico dello spazio, che nei momenti più drammatici diviene, attraverso mirate angolazioni, spigoli di pura claustrofobia.
Il secondo Cahier, se possibile, è ancor più labirintico, proteiforme, tentacolare nella sua essenza. Il sempre orfico Filiberti ci vuole ricordare che in Proust, come se fosse un Brahms letterario, convivono l’anima classica e quella moderna … Il Giano bifronte viene quindi affrontato ricorrendo a precisi portali/simboli della sfera femminile: da una parte Berma, emblema dell’arte classica, di quell’immutabilità che viene considerata come canone eterno (vista da Proust come manifestazione salvifica di verità), dall’altra Rachel, vessillifera dell’arte moderna che irrompe, stratificazione destabilizzante che mira a far saltare il sistema/cultura, ambasciatrice delle avanguardie e votata all’effimero e alla volu bilità dei gusti del pubblico. Ma, a sua volta, questo binomio antitetico è solo un aspetto che deve fare i conti con un altro elemento, dato dalla Phèdre raciniana, che rappresenta il “doppio” del Narratore, l’Io portante della Recherche, simbolo dell’amore che si rende colpevole e che non viene corrisposto, crosta che si stacca dalla ferita, la quale non smette mai di sanguinare pagina dopo pagina, libro dopo libro. Sì, perché un denominatore che non cessa mai di fare ombra sull’anima di tutto il ciclo narrativo è un “altro” flusso, quello che è intriso di erotismo disperato, accecato e accecante, che si abbevera alla fontana della tragicità. …E la fine, con Filiberti, suo squisito ed entusiasmante marchio di fabbrica, non poteva che coincidere con l’immagine di una parodia di un Walhalla, con dèi che si scoprono di non essere mai stati tali solo un attimo prima di essere spazzati via … Il buio improvviso ci lascia senza fiato (Vorspiel metaforico della morte stessa) … un gorgo che si preannuncia sardonicamente rivitalizzato, ma come e quando? nel proseguo di questo progetto di cui non vorremmo mai vedere il suo Untergang.
Il teatro di Marco Filiberti è un continuo ri-affioramento, è un procedere che bandisce il concetto della “pappa pronta” di facile assimilazione. … Sono rimasto colpito da come Filiberti abbia lavorato sul materiale umano che ha a disposizione, su come gli undici attori da lui gettati (nel senso heideggeriano del termine) sul palcoscenico abbiano dato luogo non tanto a una rappresentazione teatrale, ma a un rito misterico, a un’azione dedicata a un culto iniziatico, tale è la passione, il coinvolgimento, l’aderenza assoluta a ciò che per più di un’ora e mezza sono riusciti a mostrare. Questo perché hanno saputo incarnare realmente un ideale di Gesamtkunstwerk, in cui recitazione e movimento corporeo sono sempre fusi in un’armonia che è il riecheggiamento eternizzato di quella scena iniziale in cui la staticità apollinea della Gymnopédie si tramuta in un movimento che diviene commovente inno di un’insospettata entropia che conduce per mano lo spettatore fino alla resa finale dei conti. Al di là di un doveroso omaggio al sound designer Stefano Sasso, un plauso indispensabile deve andare a Emanuele Burrafato, stregone delle coreografie e dei movimenti scenici. Se prima ho parlato di un’orchestra fatta di attori/protagonisti è perché sotto le sue mani e la sua sensibilità si sono trasformati in altrettanti strumenti musicali/esistenziali, i cui muscoli, nervi, ossa, vene, hanno saputo comunicare in modo straordinario.
In breve, fortunato fu, chi riuscì ad assistervi.
Giudizio artistico 5/5
«Musicvoice» Andrea Bedetti
Nei Cahiers di Filiberti Proust si svela poco a poco.
Su un palcoscenico poco illuminato gli attori appaiono come un bassorilievo, formando un gruppo scultoreo sulle note di “Gymnopédie n. 1” di Erik Satie, e una classicità potente irrompe nei frammenti del tempo passato. É la prima immagine di “Cahiers d’Écriture”, due studi preparatori per “À la Recherche du Temp Perdu” di Marcel Proust, scritto e diretto da Marco Filiberti che ha scelto il Teatro degli Avvaloranti di Città della Pieve per questo primo, importante debutto. Un progetto teatrale declinato in cinque anni e modulato, in prima istanza, in una performance e alcuni studi, questi “Cahiers”, appunto, che conducono alla messa in scena dell’intera “Recher- che” suddivisa in tre parti. … In ogni opera di Filiberti la musica è protagonista assoluta, affianca la parola, l’azione, il movimento creato dal coreografo Emanuele Burrafato che trasforma l’attore in una presenza che va oltre la dizione, magnetica e inafferrabile: e, per questo, diventa indimenticabile. Come una veterana attrice, la musica accompagna la scrittura scenica in ogni momento collocando spazio, rac- conto, ruoli, perché nessun brano è casuale, ogni frase musicale introduce al sentimento. Ogni quadro ha una composizione cesellata da una recitazione intensa e unica, ogni tassello del mosaico in divenire si avvicina all’altro. Non ci sono scene, i costumi, tutti bianchi, non vogliono collocare l’opera proustiana in un tempo definito per sospingere tutti noi a una continua ricerca verso “Il tempo ritrovato”. Marco Filiberti ha una capacità straordinaria di lavorare con gli attori con cui collabora da circa un decennio e già apprezzati, tra l’altro, nel suo ultimo film “Parsifal”.
«Il Sole 24 Ore» Supplemento Cultura Grazia Lissi
Marco Filiberti, che esce dall’esperienza di avere costruito, anche lui – esattamente: costruito – un film dal Parsifal di Wagner … così come lo era per Wagner la riassunzione del Perceval di Chrestien de Troyes e, soprattutto, del Parzival di Eschenbach come puro folle che salva i l mondo sostituendosi alla morte degli dei – l’autore del Compleanno anche da Proust non chiede una narrazione, ma se mai. al posto di una spiegazione impossibile del reale, le figure – nel senso concreto che il termine figura aveva nella ermeneutica e nella retorica medievale, nell’assunzione figurale appunto di elementi della realtà – che nella vita di ciascuno sono il principio e il motore di tutta l’esistenza. Filiberti chiama questo suo esperimento, o saggio, Chahiers d’ecriture … Ad apertura di sipario le figure degli attori e delle attrici si stagliano sul palcoscenico nudo come sculture che disegnino nell’aria atteggiamenti diversi del vivere (guidati meravigliosamente dal coreografo Emanuele Burrafato). … Straordinaria l’omogeneità della recitazione di tutti, né enfatica né realistica, ma, appunto, figurale. Le parole si stagliano nello spazio come appelli inascoltati alla sopravvivenza, se non altro della memoria, nella consapevolezza che tutti invece siamo destinati all’estinzione. Il tempo è sempre irrimediabilmente perduto. E ciò che si ritrova non è, appunto, che la consapevolezza della sua perdita. Una figura che si staglia inconfondibile, permanente, nel ricordo, di ciò che vivendo si è perduto o, peggio, non si è mai veramente vissuto. Una voce chiama, alla fine, i personaggi, a uno a uno, e ad ogni nome si ha nel cuore il tonfo di una perdita, di una mancanza, ma se ne percepisce appunto la perdita e la mancanza perché la figura permane, a ricordarci, o, chi sa, a rimproverarci di averla, forse, volutamente o sconsideratamente, perduta. Una parola va spesa per le musiche … che non appaiono come l’esornazione sonora di una scena che ha paura del silenzio, bensì, anch’esse come un’architettura drammaturgica che costruisce il senso della rappresentazione. Esattamente come il muoversi dei corpi sulla scena, le statue che prendono a muoversi, all’inizio. Un teatro che voglia dare senso a ogni attimo e a ogni particolare della rappresentazione è costretto a immaginarsi il senso di ogni suono, di ogni gesto, di ogni parola, di ogni figura, a rifiutare la linea di una narrazione che spieghi il dopo come conseguenza del prima, perché nemmeno nella vita le azioni sono conseguenza di ciò che si è fatto o non si è fatto prima di agire. La logica, anzi, della causa è dell’effetto, è una logica temporale che spiega il dopo con il prima. Ma nel ciclo di un tempo che torna su sé stesso quale è il prima e quale è il dopo? Aspettiamo, ansiosi, sia pure pronti a subirne la trafittura, i successivi quaderni.
«Musica» Cyrano Factory, Lo Spazio Fossile del Tempo Dino Villatico
CAHIERS D’ECRITURE: MARCO FILIBERTI E L’OVUNQUE E SEMPRE PROUSTIANO CHE SI FA TEATRO
Può il corpo singolo di un uomo contenere il cuore universale degli umani? Può il tempo limitato di una scena restituire l’infinito ricominciare della Storia? E la gabbia dell’immagine può farsi tramite della sconfinata libertà della parola? Può, ecco, l’ovunque e sempre de À la recherche du temps perdu trovare spazio nel qui-e-ora del teatro? … Filiberti, che di quelle e simili domande ha fatto il motore della propria ricerca, perseguendo, in anni di indefessa attività tra teatro, cinema e scrittura, più per istinto che per scelta, vocazione, più che decisione, un’idea del fatto artistico che a ‘prodotto’ e ‘visibilità’ sa sempre preferire ‘creazione’ e ‘visione”. … Questa presentazione, da qualunque lato la si voglia considerare, ha tutte le caratteristiche della prima volta: la prima volta per La Recherche, che viene scenicamente considerata nella sua compattezza di organismo sì composito ma non davvero atomizzabile; la prima volta per il teatro contemporaneo, che guarda alla grande narrativa non come inerte giacimento di stimoli o immagini cui attingere alla bisogna, ma come creatura viva da cui farsi guidare; la prima volta per lo stesso Filiberti, che si muove su un terreno per lui davvero inedito – no, non quello della grande letteratura, non quello dell’epopea, che anzi gli sono più che famigliari (si ricordi, tanto per citare uno dei suoi precedenti lavori, la trilogia Il pianto delle Muse), ma quello dello “studio”. Regista delle macro-architetture, delle opere-mondo dagli allestimenti grandiosi presentati nella loro veste de- finita e rifinita, Filiberti decide qui di aprire il proprio laboratorio, dirigendo un cast di undici performer in due momenti in progress sensibilmente micro-, dalla durata contenuta, privi di scenografia, costruiti a partire da specifici nuclei tematici che si sviluppano per un principio di pura analogia. Il primo, dall’eloquente titolo Sulla gelosia, o dell’illusione del possesso di un altro essere umano, si concentra su tre coppie di personaggi (Marcel/Albertine, Swann/Odette, Charlus/Morel) per indagare quello che non sbaglieremmo a considerare il cuore di gran parte della Recherche, nonché leitmotiv della produzione dello stesso Filiberti: l’amore umano come ossessione, istinto di sostituzione, desiderio mimetico (come già nel Parsifal, si affaccia qui maestro René Girard) e potentiae cupido che più cresce più consuma, più si ostenta autentico e totale, più si rivela co-costruito e feticistico. A veicolare tutto questo, oltre a una regia che sembra adottare quell’impersonalità radicale che ha da sempre caratterizzato la migliore letteratura francese (e non solo) – quell’impersonalità in virtù della quale è impossibile cogliere davvero chi-sia-chi e dove, chi-parli-a-chi e davvero perché – più che le parole degli interpreti sono i loro corpi che, complici le preziose coreografie di Emanuele Burrafato, fingono una libertà la cui natura è prigionia, leggeri ma costretti come sono in un continuo, plastico vorticare senza vera via d’uscita. Il secondo Cahier, intitolato On dit qu’un prompt départ, o di Phèdre quale doppio del narratore, ritmatissimo nei testi e nei dialoghi, dislocando lo spazio scenico e articolandosi su più livelli volentieri meta-, affonda ancora lo scandaglio nelle pulsioni e nelle ossessioni di specifici personaggi del romanzo (Berma, Marcel, Rachel, Oriane de Guermantes), aprendosi, con felice e proustiana scelta intertestuale, al mito greco e alla tragedia raciniana, a riprova di una totale continuità, di una classicità sempre contemporanea, di una contemporaneità sempre classica, quando il bersaglio dell’indagine è, e non può che essere, l’umano solo umano. Ed eccolo qua, in fondo, il punto di contatto e di continuità tra i lavori precedenti di Filiberti e quest’inedita incursione nello “studio” come preludio, eccolo qua l’inesauribile rovello dell’arte quand’è vera: quel tutto e niente insieme, quel talmente immenso da contenere pure il suo proprio opposto che chiamiamo ‘umano’, sempre uguale e sempre diverso, sempre sé e altro da sé, apparentemente qualcuno ma sempre poi tutti.
«Note Verticali» Sacha Piersanti
CONVERSATION PIECES, Un mistero
Non è solo uno spettacolo, ma un viaggio, un’esperienza, un’immersione per scovare il senso dell’umano, le radici del suo male, dai tratti sì onirici, quasi metafisici, ma non per questo meno carnale, sensuale, l’atto unico Conversation Pieces che Marco Filiberti costruisce ripensando, riscrivendo e quindi unendo il Cain e il Manfred di George Gordon Byron. … In una scena che allo stesso tempo è tutto il mondo e nessun luogo, ricreata di volta in volta grazie a preziosissimi ma mai velleitari giochi di luci e proiezioni, su cui troneggia una coppia di vasche, abisso della coscienza e agguato del rimorso, assistiamo così all’inizio alla seduzione di Lucifero (l’ammaliante Matteo Tanganelli, primo per tenuta e trasformismo …) nei confronti di Caino … E non c’è scissione, non c’è schizofrenia, ché Filiberti orchestra e tiene insieme non solo il testo – estremamente rarefatto, lirico, che più che recitato viene cantato, evocativo e fondamentale così: modulato e alluso, mai detto – ma pure le musiche (un collage, pensato al secondo, tra i classici Wagner e Stravinskij, Mahler e Verdi, e i contemporanei Festa e Marianelli), gli effetti, le luci, i gesti. Tutte partiture, queste, che concorrono con successo alla realizzazione di un’opera d’arte totale in cui non c’è gerarchia, se l’abbraccio tra teatro e danza, illuminotecnica e parola, musica e immagine è talmente stretto da innescare una fusione. E se poi a tutto questo s’aggiunge l’inedita e riuscitissima ambizione di attingere anche alla pittura e, soprattutto, alla scultura, costruendo (insieme alle intense coreografie di Emanuele Burrafato) i corpi degli attori a simulare ora La morte di Marat, ora lo Spinario, una volta il Discobolo e per sempre la Pietà, allora totale lo diventa davvero, quest’opera d’arte. Come Michelangelo di fronte al blocco di marmo, così, Filiberti, esteta che trasuda passione, estrae dalla carne e dal corpo l’immagine, e ci getta in un mondo che, rapiti spettatori, contempliamo e godiamo, convinti di avere a che fare solo con qualcosa di bello. Ma quando, a spettacolo finito, cominciamo a applaudire, ci rendiamo conto che quell’incetta di suoni e d’immagini, di pose e parole, ci riguarda davvero e di più, e che quel mondo di tormenti e angosce senza tempo né spazio è proprio il nostro, popolato da noi. Nove miliardi di Caini, nove miliardi di Abeli. E nessun Lucifero da incolpare.
«La Repubblica» Sacha Piersanti
È un viaggio dell’anima. In luoghi insondabili. In terre inesplorate. In paesaggi dello spirito. A compierlo, attraversando terre di mezzo per giungere all’approdo finale dal quale ripartire per nuovi lidi e nuove conoscenze di sé e del mondo, è la parola poetica, il verso amato, masticato, irrobustito, scolpito, nutrito di vita. Quello che abita il corpo dell’attore. Modellato, rigenerato, trasfigurato dalla forza della poesia. Che né la voce, né la postura, né il movimento, può restituire se non abitato dal suo dèmone, la passione che agita il cuore dell’uomo. Conversation pieces è teatro esperienziale – che ingloba recitazione, danza, musica e arte visiva – luminoso modello di una pratica teatrale esemplare per dedizione, passione, e, oserei dire, abnegazione. Quella che anima il suo artefice, Marco Filiberti, regista di raffinata e sensibile fattura, che, ad ogni messinscena, alza l’asticella della bellezza, da restituire generosamente a quanti se ne lasciano rapire senza preclusione di filtri estetici o intellettuali. Bellezza alla quale non si può sottrarsi, sedotti da un abbandono del cuore e della mente. Prima stazione della trilogia Il pianto delle Muse, Conversation pieces ha avuto un primo indimenticabile allestimento open air nel 2013, e ora riscritto per una nuova versione al chiuso e con tre nuovi esemplari interpreti … Dentro questo spazio mentale e dell’anima, che ingloba anche la platea, le parole elaborate dalla riscrittura di Filiberti, così pregne ed evocative da meritare una lettura a parte, prendono corpo nelle immagini totali in proiezione … ; nelle atmosfere cupe o luminose, rarefatte e terrigne, create dai colori del sangue o della luce abbagliante; nei suoni e nelle musiche segnate da voci suadenti o distorte, da melodie o clangori (il trillo crescente di un cellulare che diventa musica compulsiva). E ci sono visioni struggenti, tra tutte l’apparizione del fantasma di Abele e il dialogo con Manfred che cerca di afferrarlo per non lasciarlo andare via … Solo tre gli interpreti, Stefano Guerrieri, Matteo Tanganelli, Diletta Masetti, attori in stato di grazia, capaci per adesione fisica e restituzione emotiva, di trasformarsi in più ruoli, … recitare con toni lirici, modulati, quasi da oratorio, vicino alla cantata e all’opera; e danzare con intensità di gesti e movimenti (le coreografie sono di Emanuele Burrafato), tenendo sempre alta la tensione senza interrompere l’incantato flusso di un racconto senza tempo orchestrato come un concerto con sfumature e pennellate dalle forti tinte. Un teatro d’altri tempi. E, per questo, potente, necessario. Che rapisce.
«Exibart» Giuseppe Distefano
La Bellezza che supera il dolore e la morte è forse la via dell’attesa di un amore e armonia che riappacifichino l’uomo di sempre e di oggi. Ogni volta che ci si avvicina all’opera di un autore poliedrico e di intensa trama simbolico-letteraria come Marco Filiberti, un silenzio totalizzante è richiesto allo spettatore ed anche, in modo diverso, agli interpreti. Perché il mondo di Marco Filiberti, costruito da una fitta trama di rimandi filosofici musicali letterari e poetici è non un evento, ma un “accadimento in atto unico”. Ossia un kairòs laico, un tempo-senza tempo “di grazia”, che quindi supera il kronos, lo svolgersi dei secoli, e si fa visione di un mistero sempre da esplorare e mai del tutto esplorato. In quasi due ore, attingendo e riscrivendo secondo la propria ispirazione Cain e Manfred di Byron, Filiberti dipana in una fremente sequenza di quadri viventi con indubbi riferimenti artistici (dalla Pietà al Discobolo, dallo Spinario alla Morte di Marat) – affidati al corpo umano plasticamente abbracciato, diviso, opposto o fuso –, la vasta indagine su bene e male, luce e tenebra, libertà e felicità, senso e ragione, e soprattutto il bisogno inguaribile di conoscere e di amare. Viaggiando, novello Dante, tra mondi ultraterreni di poesia e bellezza ahimè perduti (ma che poi l’autore e regista riversa dal “cielo” su di noi in frammenti) e la realtà onnivora, meccanica ed antieroica della contemporaneità. Echi di Giobbe, dell’Ecclesiaste e di Geremia, ossia delle domande sul perché del dolore formano un retroterra nascosto che unito alle musiche di Wagner, Mahler, Strawinsky, Verdi, Festa e Marianelli, accompagnano commentando e “parlando” la fusione tra parola e azione. Dove la parola è verso poetico, una sorta di cantus firmus o di recitar cantando – dai sotto-testi intensi – in vibrazioni che ci scuotono: ora sommesse ora veloci ora tonanti o violente. Ma non si tratta solo di suoni, bensì di rimandi a vasti pensieri, echi sonori di questi. Ogni parola sembra venire da molto lontano per poi farsi vita nel presente. Nella cortina di fumo e di luce nebulosa, c’è la tensione a sfondare l’inconoscibile e l’ignoto e poter rivedersi in un abbaglio di luce. Caino e Abele, Manfred e Lucifero si incontrano e si scontrano, piangono, fremono e tentano di oltrepassare la morte, protagonista sommessa ma onnipresente. «Non tutto perirà di ciò che sei», dice Lucifero, angelo caduto per troppa conoscenza e infelice, a Caino. Byron-Filiberti, ossia l’uomo, vuole varcare la soglia dell’immortalità e dell’eternità. Si pone una fondamentale domanda di senso che, fra l’altro, parrebbe riecheggiare, in toni molto personali, il verso leopardiano: «Che fai tu luna in ciel?». Nella fusione dialogica delle forme d’arte – musica danza scultura pittura poesia –, Filiberti riesce a dipanare, quadro dopo quadro, o se si vuole visione dopo visione, tra fascino e terribilità, questo interrogativo drammatico, puntando ad una formidabile tensione verso l’equilibrio dell’Uno Conciliatore. Chi è questo misterioso Uno che collega alla prima scena di Caino e Abele raggrumati l’ultima di Manfred/Caino che stringe a sè il fratello Abele “lasciandosi andare tra le sue braccia” e facendo sì che il creato si ricomponga in “superiore armonia”? È l’amare e l’essere amati? Filiberti non lo grida – e fa bene –, ma lo lascia scoprire a noi. Stupefatti e commossi di fronte a un’opera totalizzante che invade i sensi e l’anima perché animata da un desiderio quanto mai struggente di dire-conoscere tutto o quasi dell’uomo. L’uomo che è Abele e Lucifero insieme o alternativamente. Così appaiono gli interpreti – Stefano Guerrieri, Matteo Tanganelli, Diletta Masetti – immedesimati a tal punto da essere diventati “altro da sé”; questo trasmette la coreografia avvolgente di Emanuele Burrafato, l’ampia scena glabra di Benito Leonori. Squarci di luci, la vasca da cui esce la vita, lo specchio d’acqua dove vive la Bellezza. Non sono luoghi ma personaggi. La Bellezza che supera il dolore e la morte è forse la via dell’attesa di un amore ed armonia che riappacifichino l’uomo di sempre e di oggi. Attesa anche di qualcos’altro o di qualcun altro. Ma questo forse Filiberti ce lo dirà in un prossimo lavoro. Frattanto ci induce al pensiero, cioè a ritrovare l’uomo. E questo non è davvero poco.
«Città Nuova» Mario Dal Bello
INTORNO A DON CARLOS: PROVE D’AUTENTICITA’
Magnifico affresco … che Filiberti plasma figurativamente e plasticamente e sostanzia d’anima … nel comporsi plastico di una corrente di eros. … Si depositano via via sulla scena pose che rimandano alla pittura classica della ritrattistica del XVII secolo, restituite dai corpi degli attori mai con un eccesso di maniera, mai catturati nella trappola dell’estetismo, ma sprigionanti la musicalità della poesia figurativa intrinseca. Perché essi stessi, gli attori, sono fatti corpi poetici, assunti dalla parola, dal suo suono, dal senso pieno del dire e restituire, in una dimensione di tempo annullato «anch’essi rovine di un sentire umano forse inesorabilmente perduto». Ed è nella coreografia gestuale ricca di preziosi dettagli, intrecciando movimenti e parole, recitazione e danza, che l’acme unitario espressivo trova culmini di bellezza assoluta e totale, anche scultorea. Un tale risultato teatrale, di altissima, e va detto, rara qualità artistica, di artigianato non solo della parola, ma di una pratica di teatro totale perseguita con dedizione, necessita di preparazione accurata, di tempi di lavoro meditati, e di individuazione di corpi e di menti al servizio di ispirazioni dettate dall’urgenza di dire e di dare. Un dare voce a corpi e menti di attori che al rito dell’esposizione pospongono lo svuotamento di sé, la dedizione piena a un’idea, ad una pratica scenica che privilegia e nutra l’essere, che richiede l’abbandono di sé per dare spazio ad un altro: l’altro inteso come rivelazione di una relazione in atto, di scoperta in divenire di autenticità dell’essere. Ecco allora un cast di attori – Matteo Tanganelli, Diletta Masetti, Stefano Guerrieri, Luca Tanganelli, Giovanni De Giorgi – sapientemente diretti da Filiberti e condotti ad un visibile e luminoso lavoro di scavo, che adempiono il compito con adesione e tensione vitale. Un elogio a parte per Matteo Tanganelli è necessario. Il suo Don Carlos vibra di umanissima e ideale forza emotiva, di tremori potenti, restituendoci di quell’uomo tutto il dramma umano, tutta la disperata ricerca di felicità e l’inadeguatezza, per innocenza d’animo, di capire quelle logiche che mutano un sogno puro di libertà e di amore in un verdetto di condanna.
«Sipario» Giuseppe Distefano
IL CREPUSCOLO DI ARCADIA
È la summa di un pensiero e di una pratica artistica perseguita con passione e caparbietà, compendio illuminante di una costante ricerca della bellezza da inseguire e restituire, che affonda mente e cuore nel mondo classico, nella sua nostalgia, ma che non è rassegnazione di un mondo perduto. Il Crepuscolo di Arcadia segna per Marco Filiberti un ulteriore tappa del suo percorso d’autore e regista, orientato ad una pervicace affermazione della Bellezza salvatrice del nostro tempo. In questo dramma epico-pastorale sulla morte del desiderio nella nostra società, Filiberti crea in grande, all’insegna della spettacolarità. Rievoca miti e storia, richiama déi, satiri, poeti, eroi e letterati. Sul palcoscenico rialzato che copre l’intera platea del Teatro degli Avvaloranti di Città della Pieve – dove la pièce ha debuttato – ravvicinando così gli spettatori sui soli palchetti, egli convoca uomini natura e cose in un’unica landa desolata immersa via via in cieli plumbei poi stellati, tra fuochi e apparizioni, esplosioni e visioni incantatrici. Qui, tra le rovine di un teatro trovano rifugio un gruppo di giovani scampati a un disastro apocalittico che decidono di mettere in scena, a modo loro, quello che sta accadendo nel mondo. … L’incipit dall’Iliade «Canta Musa divina, l’ira rovinosa d’Achille …», e la maledizione di Calliope all’«empissima razza» umana «imbarbarita dall’assenza di ogni grazia», dà l’avvio al racconto … Con una scrittura aulica, unico linguaggio capace di sopravvivere ancora nella terra di mezzo all’avanzare della degenerazione, Filiberti ci immerge in un viaggio affascinante, teso alla trasfigurazione … Filiberti ironizza sui vezzi del teatro d’oggi e denuncia la sua delegittimazione … colpi di scena si susseguiranno sino al finale leopardiano «Dimmi, o luna: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?» con la voce fuori campo dello stesso Filiberti che suggella il suo pensiero davanti alla coppia Natanaele e Brunilde mentre si avviano verso l’immensità cosmica. Panteismo e manierismo, favola e cosmogonia convivono in un disegno scenico e drammaturgico nel quale Filiberti attinge a suggestioni tratte da Ovidio, Shakespeare, Keats, Woolf, Williams e Garcia Lorca, e, naturalmente, dal Tasso dell’Aminta; cita formalmente la pittura del Seicento nelle pose e nelle danze; e per le musiche setaccia mirabilmente Monteverdi, Mozart, Wagner, Debussy, Stravinskij, Arvo Part, Hirsta, Glass, Max Richter. Un concorso di attori ineccepibili (impossibile citare tutti, ma almeno Filippo Luna, Luigi Pisani, Giuseppe Lanino, Giulia Galiani, Gabriele Vanni) votati a un disegno registico altamente espressivo, ciascuno in un ruolo e in una funzione connessa, di grande resa corale, ha reso possibile questa creazione da annoverare come un vero e proprio evento artistico di teatro totale.
«Il Sole 24 Ore» Giuseppe Distefano
E’ finita l’Arcadia, zona dell’esistere più che luogo fisico, in cui Amore e Poesia, voci della Bellezza, erano vita del cosmo intero, di uomini, natura e cose? Marco Filiberti nel suo Crepuscolo di Arcadia … se lo chiede. E ce lo chiede, perché questo spettacolo in due atti è un universo di danza, recitazione, musica, cinema, riflessione dialogata che parte dal “Narrami o diva” dell’Iliade omerica, e attraverso grandi tappe scavate sulla storia occidentale arriva al cosmo stellato leopardiano. Filiberti, che è uomo di profonde e vaste cognizioni, rievoca attraverso figure mitiche o letterarie la nostalgia per un mondo di bellezza e di libertà incontaminata, cosciente del nostro tempo attuale … destinato alla morte. … questo vasto affresco che seduce il pubblico e lo tiene col fiato sul collo per tre ore è una lotta … tra la dimensione di Eros e Poesia e la tentazione di un’apocalissi, non rivelatrice, bensì distruttrice … Nei dialoghi di letteratura preziosa, citazionista non per sfoggio ma per “rielaborazione affettiva e ricreazione linguistica “ … nelle musiche “frammentate” … nella dimensione terrorizzante ed onirica di un incendio cosmico (la marcia funebre di Sigfrido come lutto dell’Eroe), nelle coreografie di corpi parlanti la pittura di Reni, Guercino e Poussin, c’è la visione metaforica e pulsante insieme del Crepuscolo di Arcadia e del dolore immenso per questo suo lento morire. Una vena dolente e talvolta ineluttabile, un elogio del tempo perduto melanconico trascorrono in quest’opera che vede tutti i registri dell’arte e della vita: dramma, commedia, poesia, mito ed edonismo, dialettica, ricerca di senso, glacialità attuale in un susseguirsi di grandi quadri scenici come una modernissima opera-totale. Dal paganesimo al romanticismo, dalla classicità al barocco, al Nulla attuale, Filiberti sgrana un lavoro, denso di sottotesti, gravido di pensieri e al contempo desideroso di ritrovare l’immensa, liberante gioia di vivere. E forse di un ingresso in quella dimensione del puro spirito che con la visione … di un infinito grondante di stelle sembra avvicinare i due giovani superstiti dinnanzi al cosmo al principio di una nuova creazione, libera dal sangue e dalla morte. Spettacolo bello e grandioso, terribile e fascinoso, chiuso nella platea di un teatro come entro una crisalide pregna di mistero i cui gemiti e la cui luce Filiberti, ricercatore di Bellezza, vuole sondare, rievocare, trafiggere e rischiarare.
«Città Nuova» Mario dal Bello
IL PIANTO DELLE MUSE – TRILOGIA
Filiberti non è un mondo, è “il mondo”. Versatile autore dalle mille sfumature, ricercatore accanito della bellezza e della verità, attraverso ruoli che non sono complementari o accessori ma sostanziali e si riversano l’uno nell’altro come esplicitazioni di un unico percorso ancora in fieri. Poeta, in una parola. Se poeta significa colui che crea e che ricrea, cercando come Diogene una via. Filiberti soffre per il nostro tempo privo di bellezza e di umanità … e cerca nell’attimo bellezza e verità, eternità e salvezza, provando a coagulare il tempo – il krònos- in un laico kairòs, il tempo della grazia … Un linguaggio di prosa poetica “alta” – dal melodramma a Shakespeare, da Joyce a Proust, da Tasso a Wagner a Garcia Lorca…- che diffonde attraverso questa summa una concezione del teatro come opera totale … Bisogna “vedere” queste giornate, scoprire attraverso le luci caravaggesche, l’impianto scenico raffinato, l’emozione dei corpi e degli spiriti degli attori in un dramma che si dipana in parole alte e sublimi, che sottendono fiumi di riflessioni eppur sono leggere. Tutto vibra dentro alla natura, soprattutto notturna, con echi leopardiani e tasseschi di lirica pura, tra chiaroscuri vellutati che ricordano certe tele del Guercino e aurore pierfrancescane, ma anche tra fuochi omerici e nibelungici. Ma sono i silenzi che affascinano, musicali pause in un dialogare sussultante, quando il pathos, voce del cuore di Filiberti, si stende a illuminare la ragione, a far brillare il dolore, nell’attesa di un abbraccio del divino sull’uomo del nostro tempo, come di una resurrezione. Testo alto, da accogliere e cogliere intensamente, esplicitazione visiva e drammatica di un percorso prima di tutto esistenziale che forse sta portando Marco Filiberti, autore di sensibilità, esigenze e cultura fuori dal comune, a nuove vie, nuove indagini, nuove semplificanti e luminose scoperte.
«Diari di Cineclub» Mario Dal Bello
CONVERSATION PIECES
Bisogna lasciarsi alle spalle i frastuoni festivalieri, le ammucchiate estive di titoli che vorrebbero segnare nuove forme e ultime tendenze in atto, e spingersi fin nella campagna della Val d’Orcia per scoprire sorprendenti realtà spettacolari, sperimentazioni inedite del “fare arte” che coniuga, in mirabile sintesi unitaria, teatro, cinema, letteratura e natura. Bisogna esserci, fisicamente, per saggiare idee alte della pratica artistica, dove contenuti, talento registico e sapienza autoriale sono ancora possibili. E bisogna lasciarsi stupire, emozionare, senza preclusione di filtri estetici o intellettuali. Perché solo così ci si potrà immergere in quella che si può considerare a tutti gli effetti “un’esperienza artistica”. Tale è Conversation Pieces, ideato da Marco Filiberti – raffinato regista di cinema e di teatro – spettacolo concepito open air nella campagna toscana (nel Giardino della Dimora Buonriposo) alla luce del tramonto declinata in quella notturna. Evento unico, irrepetibile, che sfrutta la vastità di un paesaggio mozzafiato e gli elementi naturali ai quali si aggiunge l’acqua. Una piscina, delimitata da balle di fieno, e dai circostanti alberi, diventa la scena principale dentro e attorno alla quale si muovono i due protagonisti. C’è una coreografia da origine del mondo, da risveglio primordiale, da eden senza peccato, in quella danza stilizzata che due corpi avvinghiati, Caino e Abele, poi staccandosi, ingaggiano sul vasto prato notturno che si perde a vista d’occhio e illuminato da lunghi fasci di luce mentre risuonano le note di uno struggente valzer. Solo quando subentrano quelle stravinskijane della Sagra della primavera, presagio di un sacrificio da compiersi, intuiremo che quella condizione di assoluta felicità, presto si tramuterà in dramma. È il folgorante inizio di Conversation pieces cui faranno seguito altre potenti sequenze che conferiscono un andamento cinematografico a tutto lo spettacolo immerso dentro sonorità apocalittiche e musiche di Britten, Mahler, Verdi. Il ritmo è segnato da un’intensa drammaturgia che unisce, con originale riscrittura e sintesi, i due capolavori romantici Cain e Manfred di George Byron riducendoli a due soli interpreti e con l’aggiunta di una personale stesura dello stesso Filiberti. Il risultato è un’opera intrisa di poesia, in cui l’alternarsi dei personaggi delle due opere avviene sfumando l’uno nell’altro, in una esemplare simbiosi …. Filiberti firma un allestimento di grande respiro che, del vasto universo romantico in cui ci immerge, intriso di mistero, allegorie, elementi naturali e immaginifici, riesce a ricreare l’intimità. Merito dei due magnifici interpreti, David Gallarello e Luigi Pisani, insostituibili per l’adesione fisica, per la restituzione emotiva che li ha animati, artefici di una grande prova d’attore.”
«Il Sole 24 ore» G. Distefano
La rappresentazione di Conversation Pieces fornisce diversi spunti di riflessioni molto attuali, in una perfetta calibrazione tra contenuti e recitazione, con l’ottimo risultato di una fluida fruizione da parte dello spettatore che viene catturato senza rendersene conto dai dialoghi strutturati in maniera eccellente, che conducono passo dopo passo lungo la storia raccontata, arrivando alla fine senza perdere la concentrazione o l’interesse. … A fianco alla bravura dell’autore, degli attori e del personale tecnico organizzativo, un grande protagonista è stato senza dubbio il paesaggio della Val d’Orcia, che ha fatto da padrone di casa fino all’inizio dello spettacolo, sostituito poi, da una scenografia che con il gioco di luci rendeva perfettamente la dimensione metafisica della storia”.
«La Nazione»
Conversation Pieces è uno spettacolo ammaliante, intriso di poesia, in cui i personaggi sfumano l’uno nell’altro, per raccontarci lo scontro tra umano e soprannaturale, i dubbi e l’oblio, il tormento per la morte della bellezza e dell’amore, l’anelito a Dio
«Città Nuova»
BYRON’S RUINS (2012)
Uno spettacolo scandaloso (ma non certo per il nudo integrale, in scena perfettamente integrato nella macchina) a partire dalla struttura, una morality play moderna, un dramma filosofico sulla condizione umana … Byron’s Ruins è uno spettacolo che usa il linguaggio altissimo di Lord Byron e che punta, se è possibile, ancora più in alto: ricchissimo di rimandi all’arte tutta, con citazioni da Friedrich, David, Delacroix, al fiore della letteratura romantica (bellissime, tra l’altro, le scene di Benito Leonori anche se è un colpo al cuore vedere tutte quelle pagine di libri sventrati in scena)… Filiberti adotta una prospettiva queer per rileggere uno dei più grandi poeti inglesi in chiave postmoderna: non c’è redenzione e dopo tanta bellezza, dopo tanta folie byroneuse, dopo tanta passione fisica, intellettuale, morale non resta che l’insofferenza per quanto c’è di marcio intorno a noi.
«Il Messaggero» SIPARIO S. Barocci
Filiberti mira a restituire allo spettatore la grandezza, la poliedricità e le contraddizioni del lord poeta … il sontuosissimo impianto scenico, elegante e immenso come quello di un’opera lirica, pare svetti come una cattedrale di legno, con luci scolpite come in un dipinto di Caravaggio, evoca suggestioni ronconiane nella solennità delle atmosfere, è magniloquente del discorso e non manca di stupire sul come e quante cose l’autore abbia effettivamente da dire sul fenomeno Byron. Byron’s Ruins è un’esperienza. Un viaggio attraverso luoghi misteriosi e criptici, ma comunque ammalianti e suggestivi
«Klp Teatro» A. Raccichini
Si può legittimamente parlare di una riscoperta, assistendo in anteprima nazionale al lavoro di Marco Filiberti. Diciamolo subito: non si tratta di una rappresentazione meramente teatrale, ma- come lo definisce l’Autore – di un “accadimento”, curato fino allo spasimo. Quello che Filiberti infatti rappresenta è un “mondo” … e così la “sacra rappresentazione laica” si fa evento culturale di forte spessore dove … sembra che sia il problema del dolore e del male, insieme alla sete di purezza e di immortalità, che Filiberti accentua … Il movimento intenso delle luci, in chiaroscuri violenti, le controscene sulle logge, i dialoghi anche furenti tra i personaggi, certe desolazioni lacrimose e certe ribellioni, insieme a lacrime e lamenti, diventano espressioni vitalistiche del corpo – bello e deforme al contempo – e dell’anima – alta e dannata – dell’Uomo teso a elevarsi per raggiungere la Porta che, come spesso nelle opere di Filiberti, si apre su qualcosa di immenso e purificato. Un mistero verso cui vanno le oltre due ore di rappresentazione che coinvolgono fino allo straniamento perché nessun angolo del pensiero sembra sfuggire ad un’indagine fisica e metafisica sull’uomo che musiche, scene, luci e costumi accompagnano tra sussurri e grida. Byron’s ruins è tutto questo, ma anche di più.
«Città Nuova» M. Dal Bello
Alla prima assoluta di Byron’s ruins pubblico attonito e imbarazzato … che ha approfittato dell’invito degli organizzatori a sorseggiare del whiskey offerto all’ingresso dello spettacolo in bottigliette per reggere il colpo … ma che non ha fatto mancare grandi applausi al cast e al regista del Compleanno che hanno tenuto sempre alto il grado di attenzione per le due ore e mezza di spettacolo scandalosamente contemporaneo e metafisicamente estremista. Applauditissimi tutti gli attori …
«Il Resto del Carlino»
L’accadimento teatrale – neologismo dell’autore – è di Marco Filiberti, poliedrico regista e autore di forte personalità che già aveva impressionato per le sue capacità di andare oltre qualsiasi frontiera ideologica per portare alla luce inconfessabili inquietudini … in Byron’s ruins Filiberti ha saputo evocare la figura di Lord Byron, genio e sregolatezza, inquieto e inquietante, analizzandolo perspicacemente e fino in fondo, trovando più di un riscontro con i tempestosi sconvolgimenti e gli oscuri, addirittura apocalittici, presagi del nostro tempo nelle tormentate esperienze del grande poeta inglese.
«Voce della Vallesina»
Il disagio dell’Uomo occidentale, la morte dell’espressione artistica, ma anche la ricerca di senso, la sfida al mondo e la redenzione. Passando per i totalitarismi, i rischi dell’informazione di massa, gli interessi della finanza e del capitalismo … illuminazioni, squarci di conoscenza, flash, veicolati in maniera viscerale, attraverso la potenza e l’impatto emotivo ma evocati anche da dialoghi capaci di sintetizzare profondità e leggerezza, riflessioni eterne e modernità. Ha lasciato tutto questo, e non solo, Byron’s ruins agli spettatori … un incontro stupefacente, a volte scioccante, non per le scende di nudo, non per i baci omosessuali, non per l’aggressività in alcuni passaggi della recitazione: a sconcertare è la modernità di Byron … tanto che Filiberti ha potuto raccontare con efficacia attraverso il grande poeta romantico il disagio e la complessità dell’uomo moderno. A rendere ancora più coinvolgente e forte l’esperienza del pubblico ha contribuito certamente la bravura degli attori, sottolineata da applausi a scena aperta, e la perfezione dell’allestimento.
«Corriere Adriatico»